Torino Film Festival

‘127 ore’: un potente ritratto della resilienza umana

Un film intenso e viscerale che, attraverso la lotta per la sopravvivenza, riflette su ciò che nella vita conta davvero.

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Presentato alla 43esima edizione del Festival di Torino, 127 ore è tratto dalla storia vera di Aron Ralston, un alpinista rimasto intrappolato nel canyon dello Utah e costretto a compiere un gesto estremo per salvarsi la vita. Il film, con 6 candidature all’Oscar, è uno dei progetti più potenti della filmografia di Danny Boyle che vede come protagonista, James Franco, premiato al Festival con la Stella della Mole per una delle sue interpretazioni più intense.

Danny mi ha fatto girare un longtake in cui mi diceva di fare tutto quello che potevo per liberarmi. È durato 25 minuti in cui mi sentivo veramente intrappolato, alle fine delle riprese ero esausto.”

Racconta James Franco alla Conferenza Stampa del Festival. Aron è un amante di trekking e di Mountain biking che, nel fine settimana, parte per un’uscita solitaria nel Blue John Canyon. Il viaggio inizialmente spensierato, grazie all’incontro con due giovani escursioniste, prende una piega spaventosa quando un masso cade e gli blocca il braccio, lasciandolo intrappolato in una voragine profonda circa dieci metri. Da qui inizia la sua lotta per la sopravvivenza della durata di cinque giorni che costringe Aron a risparmiare le scorte, bere la propria urina pur di resistere alla disidratazione e fronteggiare le allucinazioni causate dalla fame e dall’isolamento. La sua unica salvezza è una videocamera portatile, regalata dal padre, a cui Aron ogni giorno confida il suo stato, abbandonandosi a ricordi, pensieri e sensi di colpa.

127 ore diretto da Danny Boyle. L’immagine è stata concessa dall’Ufficio Stampa del Torino Film Festival.

Claustrofobia e ottimismo

Danny Boyle lavora magistralmente sul ritmo per trasmettere la natura dinamica e sportiva del protagonista. Prima dell’incidente il montaggio è frenetico fatto di inquadrature che esaltano il paesaggio vasto e roccioso in cui si trova. Poi, quando Aron rimane bloccato nella voragine, lo stesso montaggio accelera, ma questa volta per rappresentare le allucinazioni, il panico e la paura dell’escursionista che si rende conto di non avere più una via d’uscita da lì. Gran parte del film sfrutta le riprese di una piccola telecamera portatile. Un campo di ripresa strettissimo, che richiama la posizione claustrofobica del protagonista. Close-up sul volto segnato dalla fatica, i dettagli dello scorrere dell’acqua nella cannuccia, Boyle crea un’esperienza sensoriale che fa percepire allo spettatore la pressione della roccia. Eppure Aron, non è mai travolto dalla tragedia, perché la sua natura ottimista, lo guida fino all’ultimo, impedendogli di arrendersi.

Meditazione sulla solitudine 

127 ore non è soltanto il racconto di una sopravvivenza estrema, è anche una riflessione sulla solitudine e sull’illusione di autosufficienza. Il canyon è lo specchio delle scelte di Aron, un ragazzo convinto di non aver bisogno di nessuno, che ora si trova a fare i conti con i legami trascurati. Boyle trasforma quello spazio angusto in un tempio di meditazione, un luogo in cui emergono i ricordi e le allucinazioni del protagonista attraverso cui, lui recupera la consapevolezza di ciò che conta davvero. La videocamera portatile diventa il mezzo con cui riesce a confessare le sue riflessioni, l’unico elemento che lo tiene legato al mondo esterno. In questa solitudine comincia la rinascita di Aron che, da ragazzo invincibile, diventa un uomo consapevole di ciò che conta davvero.

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