Il quieto vivere – diretto da Gianluca Matarrese e co-scritto con Nico Morabito – oscilla tra finzione e documentario nel raccontare la storia di una famiglia. Non una famiglia qualsiasi, ma quella del regista. Le protagoniste sono Luisa e Imma, cugine di Matarrese; da oltre dieci anni la palazzina in cui vivono è il “teatro” dei loro scontri, messi in scena dal regista attraverso una narrazione ispirata alla struttura della tragedia greca. Il documentario ha una funzione catartica: ripercorrere la faida tra Luisa e Imma con l’auspicio che la messa in scena possa placare gli animi e ristabilire la pace, nel nome del quieto vivere.
Il film è stato presentato fuori concorso alle Giornate degli Autori alla 81ª Mostra del Cinema di Venezia e successivamente al Carbonia Film Festival 2025, dove è stata realizzata l’intervista.
Il film nasce da conflitti reali nella tua famiglia. Quando hai capito che questi fatti potevano diventare “materiale” cinematografico?
Molto spesso mi dicono che faccio i film in fretta, perché ne escono uno o due all’anno. In realtà le idee nascono molto prima, poi germogliano. Questa nasce tanti anni fa: è la mia famiglia, conosco questa storia e questa faida da più di dieci anni. E conosco le donne della mia famiglia, che sono molto teatrali, con una grande capacità di performance, cosa che mi ha sempre interessato. Ho sempre cercato di capire come poter costruire una storia a partire da questo. Da anni raccoglievo le testimonianze e i racconti di mia cugina Luisa, uno dei personaggi principali del film. A ogni cena, pranzo o incontro, persino sotto l’ombrellone, lei raccontava gli stessi episodi con una grande precisione di testo, parola e tempi. Erano veri monologhi teatrali. Mi dicevo: vorrei portare questa storia in un film, ma non come semplice trasposizione degli eventi. Volevo che il film portasse quel tipo di parola che suggerisce delle immagini, quella teatralità che loro hanno nella vita reale. La scorsa estate ho iniziato a scrivere con Nico Morabito, il co-autore del film, a partire dalle registrazioni dei racconti di Luisa. Da lì è nato questo canovaccio, che è diventato la base del lavoro laboratoriale fatto con la famiglia. L’idea è antica quanto me: conosco questi personaggi perché sono parte della mia vita da sempre.

Nel lavorare su eventi così vicini, ti sei imposto dei confini etici? Come hai evitato che le persone coinvolte diventassero personaggi da “spettacolo”?
Sì, il rispetto era fondamentale, ed è stata la parte più difficile. Tutto si basa sulla fiducia. Loro si fidano di me perché sono parte della famiglia, e io non voglio deluderle. Sono le mie cugine e le mie zie, ma non hanno lo stesso “sguardo” e non conoscono il linguaggio del cinema.
Mia madre, invece, aveva già fatto un film con me, Fuori tutto, in cui ho seguito la mia famiglia per sette anni durante il crollo finanziario dell’azienda a Torino. Lei era già pronta a questo tipo di lavoro. In scrittura e in montaggio si trattava proprio di trovare un equilibrio per evitare che diventassero macchiette o caricature, ma che rimanessero persone reali. Qui sta l’universalità del racconto, ed è possibile perché le loro parabole sono, in qualche modo, universali: storie di liti ne vediamo da sempre, anche nei reality. Io parlo spesso di “reality cinematografico” per descrivere il metodo di lavoro. Però il punto è raccontare un percorso emotivo: è lì che noi ci connettiamo al personaggio senza giudicarlo. È come filmiamo le persone che fa la differenza. Perché anche un ottimo concorrente di un grande reality popolare potrebbe diventare materiale per un bellissimo film, ma la domanda è: perché lo sto filmando? Che cosa sto raccontando con la sua storia? Dove si posa il mio sguardo? Come lo filmo? È lì che sta la differenza.
Il film si muove tra finzione e documentario, ma si percepisce una struttura narrativa molto chiara. Come hai ricostruito la vicenda senza snaturarla? Quali parti sono state messe in scena e quali invece sono nate spontaneamente sul set?
A me piace che il linguaggio cinematografico unisca codici diversi. Quello che mi interessa di più è il momento di creazione, il momento laboratoriale in cui si cerca e si costruisce insieme. Per questo ho fatto un grande laboratorio con la mia famiglia: è stato un gioco condiviso. Il metodo di lavoro, come dicevo, è un po’ quello del reality. L’idea era creare una struttura narrativa che a prima vista sembri inventata, ma che nel linguaggio filmico resti abbastanza lineare: campi, controcampi, punti macchina precisi. Anche nel montaggio siamo stati piuttosto lineari. La struttura narrativa può sembrare costruita, ma la sua forza sta nella verità: è forte perché è tutto reale. E questo può risultare un po’ disorientante. Per mantenere la struttura emotiva in evoluzione, ho costruito momenti reali in cui sapevo che certe cose sarebbero accadute: un pranzo di Natale, una cena di Natale, una cena di Capodanno… quelli sono momenti di incontro. Sapevo quali situazioni potevo mettere in atto con i miei familiari: una cugina che va a mangiare dalle figlie, un invito a pranzo di mia madre, o a casa di Imma… sono tutte cose plausibili. Intorno a queste realtà abbiamo costruito un set. Invece di portare gli attori su un set cinematografico, abbiamo creato un set attorno alla realtà, mantenendola intatta. Abbiamo messo le luci necessarie, scelto dove far sedere le persone, orchestrato la realtà in modo che fosse al servizio della storia. Poi, come in molti lavori di messa in scena, ci prepariamo: siamo pronti a catturare la totalità. Ho degli alleati nella storia, mia madre per esempio. Ci parliamo, sappiamo quali cose potrebbero far scattare ciò che serve alla narrazione. Quando la situazione decolla, siamo lì, pronti. E quella è la parte più documentaria: raccogliere ciò che accade, senza intervenire.

Ci sono state scene girate che poi hai deciso di non usare?
Moltissime, moltissime scene. C’era una versione del film che durava quattro ore; siamo arrivati a novanta minuti anche per una questione di resistenza, perché mostrare litigi continui, dopo un po’, può essere stancante. Era comunque molto fluida anche quella versione più lunga, che avevamo costruito con Jacopo Quadri, il montatore del film, che è stato davvero essenziale nella drammaturgia. Abbiamo lavorato molto sullo spostamento delle scene, perché certe scene cambiano completamente il senso del percorso. Alcune le ho tolte perché erano molto teatrali, e rischiavano di andare “troppo oltre”: io volevo rimanere su quel limite tra messa in scena e realtà. Oppure c’erano scene che sbilanciavano il rapporto tra i due personaggi. Avevo moltissime scene di un personaggio rispetto all’altro, e quando le mettevo insieme uno finiva per schiacciare l’altro. Quindi bisognava mantenere un equilibrio, e ho dovuto sacrificare delle scene che avrebbero dato troppa importanza a uno dei due.
Hai citato la tragedia greca come una delle matrici del film. In che modo l’hai tradotta in termini di forma e messa in scena?
Il riferimento alla tragedia è anche giocoso, ma c’è un elemento evidente: il coro. Nel film c’è un vero e proprio coro tragicomico, quello delle zie, che commentano gli eventi, proprio come nella tragedia greca. La narrazione si sviluppa in modo verticale, non orizzontale. In questo film non “accade” nulla in senso tradizionale: non c’è trama o intreccio articolato. C’è invece un percorso emotivo. Un altro aspetto fondamentale è la parola. Come nella tragedia greca, la parola evoca le immagini. La violenza che attraversa i racconti non viene mai mostrata in scena. Non vediamo l’atto violento, ma ne ascoltiamo il racconto attraverso i personaggi. Come nell’Antigone o in Edipo re, sono i personaggi o i messaggeri a raccontarla. Quello che vediamo è il dubbio, la responsabilità, il peso delle scelte. Vediamo eroi o antieroi che si interrogano. È un racconto emotivo, non narrativo nel senso classico della progressione degli eventi.
C’è anche una componente visiva da western. La scena iniziale è costruita come un duello: l’inquadratura dall’alto sul parco archeologico, il progressivo avvicinamento, i piani americani, il dettaglio dei tacchi come fossero speroni.
Quella è una scena chiave: rappresenta il confronto nel teatro greco tra i personaggi. Inizialmente era prevista come finale, ma è stata spostata all’inizio per stabilire subito cosa accade e dove ci troviamo. Non ci interessa tanto vederle scannarsi, ma capire chi sono e quali sono le loro scelte esistenziali. L’abbiamo messa all’inizio e introduce anche un riferimento musicale: gli ottoni, con un tono bellico, richiamano il western, l’affronto, il confronto tra i due nemici principali. Un altro elemento della tragedia è la musica: Cantautoma – che ha composto tutte le musiche dei miei film – ha lavorato su un folk calabrese mischiando voci e ottoni, come nella musica bellica, che nella prima sequenza ricorda la scena di un western. Ci sono poi i cori, in calabrese, con frasi tratte dai dialoghi del film: commentano gli eventi come nella tragedia greca.

Il film ha in qualche modo modificato il rapporto tra le protagoniste nella vita reale?
Diciamo che di sicuro non c’è stata la pace: continuano a essere nemiche e vivono nello stesso spazio. Però penso che il gioco del cinema, del teatro e questa sorta di catarsi abbiano funzionato come sfogo. Probabilmente, grazie al film, non passeranno all’atto irreversibile. Possiamo augurarci che non compiano ciò che poi leggeremmo sui giornali come cronaca. La catarsi diventa in qualche modo la salvezza, proprio come nella tragedia.
Nei titoli di coda compare la dedica a nonna Luisa “che voleva sempre la pace”. Possiamo vederla come una figura quasi divina, il cui intervento potrebbe risolvere conflitti altrimenti irrisolvibili?
È una cosa molto bella, e loro ci tengono molto. La nonna viene nominata nel film in un momento in cui si cerca di convincere alla pace: tutti fanno il suo nome. Luisa parla spesso anche di suo padre, mio zio, che non c’è più. I morti sono sempre molto importanti, ed è un elemento molto shakespeariano, questa presenza dei fantasmi. La protagonista porta il nome della nonna Luisa, e c’è un dettaglio molto significativo: come racconta mia zia nel film, quando morì, la nonna volle che tutti mangiassimo a casa sua pizze e altre cose. In origine, nella scena al teatro greco, era prevista una sequenza in cui arrivano le pizze e tutti mangiano insieme, ma non essendo più il finale ho dovuto tagliarla. Forse il cibo diventa un simbolo della divinità rappresentata da questa figura materna: la nonna, una grande cuoca che cucinava per tutti. Quindi sì, c’è una presenza divina risolutoria che rimanda allo schema della tragedia, assolutamente.
Ci sono tantissimi intermezzi culinari.
Sì, c’è una scena molto bella in cui Luisa litiga e poi dice: “Passami il baccalà”. Oppure, alla fine di ogni pranzo o cena, dopo le sue escalation e i suoi exploit, si sente sempre: “Non hai mangiato niente? Mangia, mangia”. È una cosa molto organica, una tragedia che diventa fisica.
Ho notato che tra i ringraziamenti compare anche quello a Paolo Taviani.
Donatella Palermo, la produttrice del film, era molto legata a Paolo Taviani e aveva prodotto i suoi film. È mancato da poco, e in un certo senso ci ha accompagnato con la sua presenza durante il lavoro sul film. Questo ringraziamento è un omaggio che abbiamo voluto fare. Tra l’altro, Donatella sta preparando il suo ultimo film, quindi questo progetto è stato anche un modo per ricordarlo e per rendergli omaggio.
