Interviews

Giuseppe D’Antonio racconta il Linea d’Ombra Festival

Trent’anni di visioni e diritti: il festival che fa dialogare arte e società

Published

on

Giuseppe D’Antonio è da lungo tempo direttore artistico del Linea d’Ombra Festival: manifestazione internazionale dedicata al cinema e all’audiovisivo che si svolge a Salerno. Con più di trent’anni di storia, il festival si conferma come luogo di ricerca e dialogo tra generazioni, linguaggi e diritti, portando sul territorio campano produzioni europee, opere emergenti e momenti di formazione. Ci troviamo nel cuore della XXX edizione dove vediamo come tema centrale “Il diritto a sapere”: rappresentato da un’immagine di una mela. Il festival intreccia cinema, musica e nuove tecnologie, esplorando il ruolo dell’intelligenza artificiale, la forza del suono nel linguaggio cinematografico e la vitalità dei giovani autori provenienti da università di tutto il mondo.

La scelta della mela nel Linea d’Ombra Festival

L’immagine della mela è molto evocativa. Come nasce questa scelta visiva e cosa rappresenta per voi, in relazione al festival, la scelta di aver messo proprio questa mela come simbolo?

Noi siamo partiti lo scorso anno con l’idea di avere come tema importante del festival: il tema dei diritti. In preparazione della scorsa edizione e, evidentemente anche in questa, che proprio i diritti — con una declinazione particolare per quest’anno, il diritto al sapere — sono uno degli elementi fondamentali messi in gioco, in qualche modo rilevanti sulla scena culturale e politica a livello internazionale.

Allora abbiamo scelto di conservare l’idea del diritto al sapere. Tutto questo avviene poi, tra l’altro, con un’elaborazione lunga e complessa con Roberto Policastro. Al quale abbiamo consegnato sostanzialmente questo tema della negazione alla conoscenza, o il tema in qualche modo generale della difficoltà di accedere al sapere.

E uno degli elementi che è venuto in mente a Roberto Policastro, dopo lunghe discussioni con noi, è proprio di ritornare all’elemento primitivo, primario sostanzialmente. Cioè la mela, che è diventata portatrice di quest’idea della conoscenza.

Allora, la prima cosa che viene in mente è la mela di Adamo ed Eva, è ovviamente l’albero della conoscenza a cui non dovevano accedere gli umani per decreto divino. Ma poi ci è venuto in mente anche la mela di Turing , utilizzata poi da Macintosh come simbolo del Mac. Per intenderci: la mela che ha mangiato sostanzialmente il padre dell’intelligenza artificiale. Lui è il primo che si è posto il problema di come un’elaborazione di carattere digitale o meccanica potesse trasformarsi in una forma di intelligenza.

E poi c’è ovviamente la mela del conflitto tra le divinità antiche: insomma, è in qualche modo evocativa di questa dimensione. Mela però che nel nostro caso non è bella, turgida, bella intera: è marcita da un lato, è profondamente intaccata. Questo proprio perché ci rendiamo conto che nella dimensione generale del diritto alla conoscenza c’è appunto questa negazione.

Per cui questa mela, che dovrebbe essere il simbolo del sapere o dell’accesso al sapere, è in qualche modo intaccata da tutta una serie di cose che lo impediscono: sia il sistema della comunicazione, che è troppo centrata su argomenti a volte pretestuosi, sia il fatto che c’è una gran parte dell’umanità — ma anche nella stessa Italia — che si ritrova in una condizione di difficoltà ad accedere al sapere.

Cinema e studenti: dentro le università

Mentre poi, passando alla sezione Unifest, che prevede opere audiovisive provenienti da diverse università da tutto il mondo. Cosa cercavate nella selezione di queste opere, nello specifico quest’anno, e quali sono gli spunti che vi hanno colpito maggiormente?

Allora, l’ Unifest è nato cinque anni fa in collaborazione con l’Università degli Studi di Salerno. In modo particolare con l’Università e poi con il LabSAV, che è una struttura interna dell’Università di Salerno, e con il PoliCom, che è un altro dipartimento legato alle discipline dell’estetica sostanzialmente.

Noi da cinque anni lavoriamo su questa cosa, cioè partiamo dal tema del festival. Quindi quello che andiamo a cercare è la declinazione che i ragazzi, a livello universitario in tutto il mondo e in Italia, riescono a dare dell’idea del diritto alla conoscenza. Ovviamente questo è diviso in due parti. C’è uno che è Stile Libero, dedicato ai prodotti audiovisivi di finzione realizzati in tutto il mondo. L’altro invece è Italian Job, che è quello dedicato agli audiovisivi realizzati nel corso delle attività didattiche all’interno dell’università — italiana, in questo caso.

Quindi andiamo a cercare la freschezza, l’immediatezza, la capacità di sintesi. Questi lavori devono durare molto poco, come puoi immaginare, ma riescono a declinare il tema portante del festival anche con originalità. Quindi non tanto la qualità estetica in senso stretto, ma la brillantezza, l’originalità e la capacità di compiere sintesi estetiche di un tema che effettivamente è particolarmente complesso.

Tutto questo ovviamente, come puoi immaginare, grazie alla collaborazione con il Dipartimento di Scienze Politiche e della Comunicazione, e poi con il LabSAV, che è un laboratorio interno a questo dipartimento. In generale se ne occupa il professore Finiani, con il quale abbiamo un rapporto ormai consolidato nel tempo.

È molto interessante, tra l’altro, questa esperienza, che speriamo anche di potenziare, perché sono giovanissimi universitari che, certo, hanno esperienza nel gusto e nella cultura audiovisiva, ma non si sono mai sperimentati in senso diretto nella realizzazione di piccole opere. Allora vengono fuori delle cose di grande originalità nella loro semplicità.

L’intelligenza artificiale al Linea d’Ombra Festival

Quest’anno inoltre ospiterete anche un convegno riguardante l’intelligenza artificiale: IA e cinema. Come vede il rapporto tra tecnologia e creatività nel cinema ad oggi?

Allora, questo è un discorso che mi impegnerebbe piuttosto a lungo, ma mi pare abbastanza evidente che la storia del cinema, a parte essere storia della creatività, è anche storia delle tecnologie che, mano a mano, hanno potenziato la creatività degli autori.

Questo è un dato di fatto evidente, ma già dai primordi è stato così. Tutte le innovazioni tecniche — dall’uso della pellicola al sonoro, al colore, ai formati di ripresa, alle cineprese, alle macchine di proiezione e via discorrendo — ovviamente hanno modificato profondamente l’estetica del cinema, che conserva alcune cose dei primordi, ma evidentemente si è evoluta anche grazie a queste tecnologie.

Ovviamente la stessa cosa avviene con l’intelligenza artificiale. Devo anche dire che in questo caso noi ci troviamo di fronte ad uno strumento che ha una sua originalità rispetto a tutti quelli precedenti. Sono stati utilizzati con un controllo e un governo totale da parte del creativo, della persona creativa, che può anche non essere solo il regista, ma il direttore degli effetti speciali, delle musiche, sulle quali è intervenuta potentemente la tecnologia.

Nel caso dell’intelligenza artificiale noi ci troviamo di fronte ad uno strumento che ha una sua autonomia nella produzione, nell’elaborazione dei dati di partenza. In quello che vengono chiamati i processi di deep learning iniziale, cioè l’insieme dei dati che noi immettiamo nell’intelligenza artificiale, ovviamente quella di tipo generativo.

Quindi comporta una diversità di approccio. Il che non vuol dire che possiamo delegare all’intelligenza artificiale la realizzazione di documentari o lungometraggi, significa semplicemente che dobbiamo imparare dall’intelligenza artificiale a modificare la nostra concezione di creatività e di produzione artistica.

So di artisti — soprattutto nell’ambito della pittura — che hanno utilizzato l’intelligenza artificiale in modo straordinario. Ovviamente continuando ad averne un controllo entro i limiti in cui essa consente un controllo, ma sapendo incamerare come fatto creativo importante queste macchine generative.

La situazione odierna

Noi siamo nella fase in cui dobbiamo imparare a usare questi strumenti, non ripiegandoci in un sogno nostalgico di qualcosa che ormai non c’è più. Questa è una rivoluzione che non prevede una restaurazione. Continueremo su questa strada, ma sono convinto che nel corso del tempo impareremo a relazionarci con questo strumento straordinario anche nell’ambito del cinema e dello spettacolo, e lo sapremo utilizzare al meglio.

Questo significherà abbattere i costi, potenziare le capacità espressive e, spero, anche socializzare i processi produttivi che adesso sono appannaggio soltanto delle grandi produzioni. Lo sto pensando soprattutto in relazione all’animazione, che è quella che forse ne beneficerebbe di più, perché i tempi di produzione anche di un cortometraggio di animazione a volte sono anni. E quindi forse l’intelligenza artificiale potrebbe favorire una riduzione dei tempi e una moltiplicazione dei prodotti tra i quali possiamo scegliere.

Certo, c’è l’altro lato: una serie di lavori che in qualche modo potrebbero scomparire, e ovviamente questo è un rischio che va calcolato e, se possibile, evitato. Qui però credo che dovrebbe entrare in campo non tanto la scienza in senso stretto, né le tecnologie, ma la politica. Solo che in questa fase, da parte della politica — almeno per quello che mi consta in Italia — c’è piuttosto un ritardo nel comprendere il carattere rivoluzionario dell’impatto delle tecnologie digitali, e soprattutto dell’intelligenza artificiale, su tutti i campi della produzione.

E quindi anche sulle contraddizioni o i contraccolpi che potrebbe avere sulla società, sia nelle possibilità positive che, ovviamente, in quelle negative che andrebbero limitate.

L’importanza del suono nel cinema

Passando alla sezione Quinto Elemento, che nasce come punto di incontro tra cinema e musica. Quanto è importante oggi, secondo lei, educare lo spettatore ad ascoltare il cinema e non solo a guardarlo?

Sì, è una delle cose che difficilmente si fa. Se uno esce dal cinema ricordando le immagini, ricordando gli attori, ricordando alcuni momenti, una particolare sequenza e via discorrendo, difficilmente — o almeno questa è l’esperienza che ho fatto io — in qualche modo ragiona su come queste immagini siano state accompagnate, interpretate, preparate, a volte anche contraddette, dall’accompagnamento musicale.

Io credo invece che sia importantissimo cominciare a capire che l’educazione che va fatta al cinema. L’educazione al cinema — è un’educazione audiovisiva, non è soltanto un’educazione visiva. Non bisogna imparare soltanto a guardare le immagini e a saperle interpretare. Bisogna avere anche la capacità di leggere e interpretare contemporaneamente la relazione che si stabilisce tra immagine e suono che la accompagna.

Che siano temi musicali o rumori di fondo, sostanzialmente. Il Quinto Elemento nasce come tentativo di andare a indagare questa intersezione tra l’audiovisivo e altre forme d’arte. A volte abbiamo fatto le performing art, a volte azioni teatrali, a volte la videodanza.

Quest’anno ci siamo concentrati in modo particolare sulla musica. Devo dire che ci sono delle esperienze estremamente importanti: Steve Gunn, che verrà a suonare riprendendo con la chitarra una colonna sonora inedita e molto particolare di una serie che era Visions in Meditation, realizzata da Stan Brakhage.

Bugonia

Poi ovviamente ce ne sono altre, tre o quattro molto importanti e significative, tutte legate al tema della musica. Io faccio un esempio: se si è visto l’ultimo lavoro di Yorgos Lanthimos, si ha immediatamente la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa in cui il commento musicale ha un’importanza straordinaria nella costruzione di senso del racconto visivo.

Credo che sia forse uno da studiare, nel senso che bisognerebbe rivedere il film più e più volte per rendersi conto di quanto il commento musicale non solo sottolinei, ma in qualche modo spinga il livello di interpretazione di ciò che stiamo vedendo, andando oltre la dimensione del visivo.

E credo che questo sia fondamentale, ma bisogna essere educati per poterlo fare, perché altrimenti diventa complicato accorgersene.
Questo è un grande problema: lo consideriamo come se fosse un rumore di fondo costante. Perché ovviamente noi la musica ce l’abbiamo quando entriamo in un negozio, in un supermercato, e via discorrendo.

Temo che quando entriamo al cinema la percepiamo più o meno nello stesso modo. Ed è un errore clamoroso. Invece ha una funzione fondamentale.

Exit mobile version