Linea d'Ombra Film Festival

‘Amarelo Banana’: il prezzo della sopravvivenza è una banana gialla

Sopravvivere a tutto

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Il prezzo della sopravvivenza è una banana gialla. Amarelo Banana è il corto d’esordio di Alexandre Sousa in concorso al Linea d’Ombra Film Festival.

Il protagonista senza nome, in mezzo a tanti altri senza nome, si riprende da una notte passata in bianco e scopre, per sua grande fortuna, di poter finalmente riaddormentarsi.

Sopra-vivere a tutto: la maledizione o la grazia di Amarelo Banana

Alexandre Sousa firma il cortometraggio animato vincitore del Méliès d’argent al MOTELX Film Festival di Lisbona e premiato Outstanding Work Award a Taichung, Taiwan (TIAF). In sposa con il tema annuale del 30° Linea d’Ombra Festival, “Il diritto a sapere”, Amarelo Banana ci ricorda che, a volte, ci è proprio anche il “diritto a non-sapere”, a non-conoscere, a perdere la coscienza per allontanarsi dal caos, sopravvivendogli.

Com’eravamo prima di evolverci, questo domanda, in LIS, la scienziata alla scimmia sua amica. Lo studio sull’animale diviene una scusa per lei per regredire all’istinto e sopravvivere alle conseguenze negative della propria evoluzione.

Il protagonista uomo vede in televisione quella stessa conversazione tra la scienziata e la scimmia, e si chiede se valga la pena continuare a indugiare nell’eterno presente, fatto di insonnia, traffico, schermi TV.

Con una semplicità disarmante, Amarelo Banana si anima di domande e di risposte, che convengono sulla mediocrità umana: il prezzo della sopravvivenza è stata una banana gialla, passata di bocca in bocca, la grazia, in cibo, che ci ha fatti sopravvivere, o la maledizione che ci ha illusi di poter sopra-vivere a tutto.

Fotogramma di Amarelo Banana (2025)

Pensieri di onnipotenza

La comunità zoofila, filo-naturale, misantropa, dentro cui il protagonista, a un certo punto, si trova a camminare per una bizzarra coincidenza, è forse la deriva della perdita di umanità e di consapevolezza della propria millenaria evoluzione.

La comunità è composta di uomini e donne, sdraiati, in piedi, appoggiati alle pareti di un appartamento di città, rivestito da carta da parati dipinta che simula un deserto roccioso, una foresta pluviale, un sole al tramonto. Dalle casse stereo, piantate in ogni stanza – in ogni habitat – escono suoni di uccelli, di torrenti, fruscii di fogliame che si mischiano alla staticità dei corpi immersi nel finto verde.

Il mastermind dell’illusione urbana è la scienziata, fattasi scimmia, che condivide la propria casa, divenuta foresta, bosco, sterpaglia sintetica adagiata sul parquet, con chi come lei vorrebbe staccarsi dalla ribalta del teatro sociale e divenire una figura di sfondo. Senza insonnia, senza traffico, senza schermi TV. Allontanarsi dai pensieri di onnipotenza che attanagliano l’uomo, ridurlo ad animale e, finalmente, addormentarsi senza pensare all’evoluzione.

All’uomo serve un’illusione per poterne vivere un’altra

Il cortometraggio di Sousa racconta di uomini persi e di uomini ritrovati. Ma entrambe le specie sono stregate dall’eterna illusione di poter raggiungere una consapevolezza maggiore, mettendo la testa fuori dalla finestra o indossando una maschera da mandrillo.

Creata un’illusione, se ne genera un’altra. Il miraggio di poterci assentare dal resto del mondo ci fa credere di riuscire a scappare, mentre il richiamo del “giallo banana” si fa sempre più forte.

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