L’esigenza di Isa Willinger nel realizzare questo documentario parte da una dichiarazione della leggendaria regista Kira Muratova: rispetto agli uomini, le donne girano film più crudi ed espliciti. Willinger trasforma la sua affermazione in una domanda che echeggia lungo tutto il documentario, confrontandosi con colleghe di diverse età, visioni e provenienze sociali. Tra le partecipazioni, Catherine Breillat, Céline Sciamma e Ana Lily Amirpour.
Attraverso l’analisi di film d’archivio di varie epoche, No Mercy avvia discussioni solo apparentemente lontane dalla domanda di partenza, esplorando il rapporto tra cinema e potere.
No Mercy Donne forti al cinema
I temi presenti nei film analizzati sono molteplici e affrontati secondo codici differenti, ma spesso hanno dei fili conduttori. La resistenza alle norme di genere e identità sessuale, il ribaltamento della prospettiva dominante, donne che sfidano il linguaggio cinematografico di stampo patriarcale. I concetti di forza, brutalità e violenza vengono sviscerati dalle registe con cui Willinger dialoga.
Tra le riflessioni più interessanti, quella di Virginie Despentes sul suo Baise-Moi, diretto nel 2000 con Coralie Trinh Thi. L’idea era di mettere in scena delle donne violente tanto quanto venivano rappresentati gli uomini, rinnovando il sottogenere del rape and revenge. Una prospettiva differente nelle scene di stupro è ciò che cerca anche Mouly Surya in Marlina – the Murderer in Four Acts (2017). Attraverso la scelta di inquadrature e la richiesta che sia l’attore a spogliarsi, la regista evita così di sessualizzare la donna e la violenza dell’atto. Ana Lily Amirpour con A Girl Walks Home Alone at Night (2014) ribalta il trope dei pericoli notturni per una ragazza sola, che diventa lei stessa la minaccia per gli uomini. La regista dichiara di non apprezzare che le sue protagoniste siano definite strong female characters, in quanto considera le donne resilienti per definizione.
C’è anche chi crede che la brutalità e la violenza stiano anche nel non visto, nei fantasmi del proprio passato storico e culturale – come mostra Marzieh Meshkini in The Day I Became a Woman (2000). Per Alice Diop possono significare onestà, oppure riappropriazione dei propri traumi come per Catherine Breillat.
Male gaze e female gaze. Sovversione delle strutture di potere
Il termine male gaze viene coniato nel 1975 dalla critica cinematografica Laura Mulvey. Nella realtà diegetica, l’uomo è soggetto di sguardo e la donna diventa oggetto guardato, privata di ogni agency.
A questo concetto si contrappone il female gaze come sovversione della dinamica patriarcale, rappresentando le donne come soggetti attivi dotati di tridimensionalità.
Nel corso del documentario, il male gaze è definito dalle registe come una struttura di potere da scardinare: il racconto delle proprie storie diventa atto di resistenza. Alcune di loro riflettono su come le possibilità di rappresentazione si estendono anche oltre il female gaze.
Impatto delle immagini delle donne e di altre minoranze
Uno degli esempi riportati è l’introduzione di Rita Hayworth in The Lady from Shanghai (Welles, 1948). L’inquadratura dell’attrice diventa visione onirica sospesa nell’aria, oggetto del desiderio dello sguardo maschile. Tuttavia, nella contemporaneità, per la donna si aprono nuove possibilità di essere rappresentate e soprattutto di rappresentarsi.
“For years men have talked about women. But do they really know us?”
La domanda che si pone Apolline Traoré può essere collegata proprio al riconoscimento dell’impatto delle immagini realizzate dalle donne e dalle altre minoranze.
Le immagini, infatti, non sono mai neutrali per definizione: sono sempre negoziate da chi le osserva ma anche da chi le costruisce. Avere l’occasione di dirigere le proprie storie può rovesciare o distruggere le narrazioni dominanti, promuovendo visioni innovative. Ogni categoria marginalizzata porta con sé un bagaglio di esperienze personali e sociali e quindi nuove rappresentazioni filtrate dal loro sguardo.
Il coraggio di metter(si) in scena
Alla fine, quindi, il cinema delle donne è davvero più violento di quello degli uomini? Dalle testimonianze delle registe, la vera “violenza” sembra trovarsi proprio nella forza di raccontare le proprie storie, sfidando l’audience – soprattutto maschile – a mettersi in discussione.
Lo spettatore è invitato a domandarsi quanta neutralità ci sia dietro al suo modo di vedere il cinema, quanto il cinema stesso sia apparentemente neutrale. L’importanza di No Mercy sta proprio nell’incoraggiamento a una riflessione collettiva, all’unione tra donne, al dialogo tra esperienze e contesti differenti.
Ciò che emerge è l’importanza di dare spazio alle voci marginalizzate per mettere in scena storie innovative e utilizzare nuovi codici per raccontarle. Anche a costo di essere brutali.