Film festival Diritti Umani Lugano
‘How to build a library’: conversazione con i due registi
Due donne restaurano una biblioteca di Nairobi per donarla alla comunità
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2 mesi agoon
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Irene CasulaHow to build a library è il documentario vincitore del Premio ONG al Film Festival dei Diritti Umani di Lugano, assegnato da Amnesty Svizzera. Un’opera sulla dedizione di due donne, Wachuka e Shiro, che tentano di racimolare fondi e collaboratori per la trasformazione di una biblioteca di Nairobi, fino al 1958 destinata all’uso delle sole persone bianche. Il documentario ha avuto la sua anteprima al Sundance Film Festival di quest’anno. Alla regia c’è la coppia formata da Maia Lekow e Christopher King, che abbiamo avuto il piacere di intervistare.
How to build a library: la cultura è un atto politico
Wachuka e Shiro non hanno mai lavorato a un progetto simile. Entrambe abbandonano il loro lavoro, di scrittrice e editrice, per occuparsi personalmente di questa impresa. A Nairobi la comunità creativa deve sopportare non poche difficoltà, con un disinteresse generale e una grave mancanza di fondi. La biblioteca McMillan rappresenta per loro non solo l’occasione di riproporre un luogo dove educarsi e informarsi con nuove comodità e tecnologie, ma anche un riscatto sociale. Con la restaurazione e la riapertura della biblioteca al pubblico, le due donne vogliono segnare un punto di rottura con il passato coloniale e razzista della loro città, ricordando quanto le persone nere abbiano dovuto subire.
Conversazione con i registi: Maia Lekow e Christopher King
Ci sono novità con la ristrutturazione della biblioteca? Pensate che questo film farà conoscere a più persone l’immenso lavoro di Wachuka e Shiro, in modo che possano ricevere più aiuti possibili?
C: Shiro e Wachuka sono attualmente impegnate a pieno ritmo nella raccolta fondi per completare la ristrutturazione della MacMillan Library. Il sostegno che speravano di ricevere dal governo locale non si è concretizzato e le promesse fatte dal governatore non si sono tradotte in azioni concrete. Sono deluse per non aver ottenuto l’intesa desiderata, ma possono contare su un accordo valido fino al 2028 e stanno lavorando per reperire i fondi finali necessari.
M: Il film sta offrendo loro una visibilità inaspettata. Abbiamo organizzato proiezioni in tutto il mondo e, attraverso queste, molte persone stanno scoprendo il loro lavoro e contribuendo in vari modi. Hanno già raccolto una cifra considerevole grazie alla diffusione del documentario.
C: Ci siamo chiesti se continuare a filmare o concludere il progetto, ma, a un anno di distanza, la situazione è rimasta invariata. Crediamo quindi di aver fatto bene a chiudere il film nel momento giusto, permettendogli di raggiungere il pubblico.
L’idea di realizzare How to build a library è stata vostra o sono state Wachuka e Shiro a chiedervi di documentare il tutto con un film?
M: Conosciamo Shiro e Wachuka da molti anni. Chris aveva già lavorato con Wachuka, che all’epoca dirigeva la casa editrice Kwani, mentre io collaboravo con Shiro nel campo musicale. Inizialmente ci contattarono per chiedere se fossimo interessati a realizzare alcuni video per i social media sul progetto di gestione della biblioteca. Andando con loro a visitare la struttura, capimmo immediatamente che non volevamo limitarci a dei contenuti promozionali: volevamo creare un vero documentario osservativo e indipendente. L’edificio, bellissimo ma problematico, ci apparve subito come un simbolo della storia del Paese, un punto di partenza per esplorare temi più ampi come l’eredità coloniale, le dinamiche di genere, la memoria culturale e le sfide politiche.
C: Per noi era fondamentale mantenere indipendenza creativa: non volevamo che il film fosse un semplice strumento di promozione. Ci interessava raccontare anche i contrasti di potere e le tensioni interne al progetto. All’inizio le protagoniste non comprendevano appieno la nostra prospettiva. Quando videro la prima versione del film capirono il nostro intento e ci diedero piena fiducia.
Cosa vi ha interessato della storia di queste due donne?
M: Essendo nata e cresciuta a Nairobi, mentre Chris vive lì dal 2007, era importante raccontare una storia che parlasse della città e del Paese attraverso il percorso di queste due donne. Volevamo mostrare la loro resilienza, la capacità di affrontare le difficoltà e di sfidare le convenzioni, rimanendo sempre determinate.
C: Un altro aspetto che ci ha colpiti è che in Kenya non esistono molti film che analizzano il punto di vista della classe dirigente o di chi prende decisioni politiche. How to Build a Library vuole proprio indagare cosa significhi trasformare una visione in realtà, osservando il processo decisionale e le sue complessità, piuttosto che concentrarsi solo sull’aspetto comunitario.
M: È, in fondo, una storia inedita dell’ambiente urbano di Nairobi.
How to build a library, così come l’impresa di Wachuka e Shiro di restaurare la biblioteca, non può che rivelarsi profondamente politico. È stato questo uno dei motivi che vi ha avvicinati alla causa o è stato un inevitabile risvolto sviluppatosi nel corso delle riprese?
C: Quando abbiamo iniziato a filmare, non sapevamo ancora quale sarebbe stato lo scopo del progetto. Già nei primi due giorni di riprese durante la visita iniziale e la prima riunione del consiglio ci siamo resi conto che ci sarebbero stati inevitabili scontri di potere. Ci è apparso subito chiaro che la dimensione politica sarebbe emersa naturalmente, poiché lavorare con una biblioteca pubblica è, di per sé, un atto politico. Volevamo mostrare cosa significhi, per i giovani con una visione, cercare di concretizzare i propri progetti all’interno di un sistema così complesso.
M: Ci siamo resi conto da subito che ci sarebbero state molte difficoltà, ovviamente non potevamo sapere quanto sarebbe stato complesso. Ma le tensioni, le difficoltà e le sfide che abbiamo documentato sono diventate una parte fondamentale del film.
C: Raccontare queste dinamiche è stato difficile, anche perché si trattava di un territorio molto sensibile da esplorare, e abbiamo dovuto farlo con grande attenzione per non mettere in difficoltà nessuno, nemmeno noi stessi.
Ciò che mi ha colpito di più del vostro film è sicuramente la determinazione di Wachuka e Shiro, oltre al loro fortissimo legame. In tutti questi anni e con tutti gli ostacoli che hanno incontrato non è mai capitato che fossero sul punto di mollare tutto o vi chiedessero di abbandonare anche il progetto del documentario?
M: Come accade in ogni documentario, può essere snervante avere una telecamera costantemente puntata addosso. Abbiamo filmato per otto anni e naturalmente ci sono stati alti e bassi, sia per loro che per noi. Come in ogni relazione, anche tra Shiro e Wachuka, come tra noi due, che stiamo insieme da quasi vent’anni. Le due protagoniste sono donne meravigliose e molto diverse: ognuna affronta le sfide a modo proprio, ma alla fine entrambe restano unite dall’obiettivo comune di completare la biblioteca. Non dovevano necessariamente lavorare faccia a faccia tutto il tempo, spesso lavorano attraverso il loro fantastico team o online.
C: Non abbiamo mai avuto la sensazione che volessero arrendersi, anche nei momenti più difficili. Piuttosto, siamo stati noi, a volte, a dubitare di poter portare a termine il film, soprattutto dopo diversi anni di lavoro. Pensavamo sarebbe stato un progetto di uno o due anni, ma dopo tre, quattro anni, non sapevamo più come sarebbe andata a finire. Loro non ci hanno mai chiesto di abbandonare il progetto.
M: C’è stato un periodo in cui abbiamo deciso di prenderci una pausa per permettere a tutti di respirare, ma poi abbiamo ripreso con rinnovata energia, seguendo nuovi sviluppi del progetto. Durante la pausa ci siamo dedicati a un altro nostro film che in quel momento era in post-produzione.
Quando si lavora a un documentario come How to build a library una delle difficoltà principali è sicuramente riuscire a cogliere il reale senza cambiare il modo di comportarsi di chi si ritrova ripreso da una videocamera. Ho notato che molto spesso, durante incontri o riunioni, chi avrebbe dovuto conversare con Wachuka e Shiro tentennava a prendere parola. Era una reazione di imbarazzo davanti alla macchina da presa? È stato difficile trovare persone entusiaste di apparire nel film?
C: Crediamo che ti riferisca alla prima riunione con i bibliotecari, quando nessuno sembrava voler prendere la parola. All’inizio pensavamo che fosse la nostra presenza a creare disagio, ma presto ci siamo accorti che quelle dinamiche si ripetevano anche in incontri ai quali non partecipavamo. Ci siamo resi conto che la tensione derivava più dal rapporto tra il vecchio personale e il nuovo team di Book Bunk che dalla presenza della videocamera. Col tempo, grazie al dialogo e alla fiducia costruita, i bibliotecari hanno iniziato ad aprirsi e a parlare liberamente delle loro frustrazioni. Per noi era importante mostrare entrambe le prospettive, solo dopo uno o due anni di lavoro siamo riusciti davvero a conquistare la loro fiducia, quando hanno capito che fossimo due registi indipendenti.
Qual è stato il vostro approccio nei confronti di queste persone? Avete interagito con loro o avete tentato di essere notati il meno possibile?
M: Per noi era fondamentale essere presenti in quei luoghi, poter ascoltare entrambe le versioni della storia e vivere gli ambienti anche senza una telecamera, per guadagnare il rispetto e la fiducia delle persone.
C: È impossibile entrare in una stanza con una telecamera e non interagire con chi vi si trova, soprattutto in un contesto come quello del Kenya. È necessario costruire relazioni con tutti anche fuori dall’obiettivo: solo così si riesce a catturare le persone nella loro dimensione più autentica, quando si sentono a proprio agio con te. Altrimenti, ciò che emerge è una performance o un atteggiamento impacciato.
M: Questo aspetto rappresenta una parte essenziale del nostro metodo di lavoro: conoscere davvero i protagonisti e creare con loro un rapporto umano. Per noi, ad esempio, una scena molto riuscita è quella con le bibliotecarie, durante l’incontro con Shiro e Wachuka. Lì si percepisce chiaramente il loro imbarazzo e anche la loro irritazione: “Chi sono queste ragazze che arrivano qui a cambiare il sistema?”. Allo stesso tempo, mostrano forse una minore consapevolezza o una minore capacità di esprimere apertamente ciò che provano.
C: C’è in generale una certa goffaggine, dovuta anche al fatto che non sono state educate a essere critiche: il sistema scolastico keniota è ancora fortemente basato sull’obbedienza all’insegnante, più che sullo sviluppo del pensiero autonomo.
Vediamo anche dei momenti della vita privata delle due donne, per quanto tempo siete stati a stretto contatto con Wachuka e Shiro? Ma soprattutto, quanto di questo materiale girato avete dovuto poi scartare in fase di montaggio?
M: Abbiamo passato molto tempo con Shirou e Washuka, specialmente all’inizio. Penso sia questo il motivo per cui loro erano le più sincere, le più a loro agio, le più aperte. E poi penso che ci sia stato un leggero cambiamento del tipo: “Aspetta, come vengo ritratta in camera? Come appaio al resto del mondo?” E a questo punto c’è stata un po’ di chiusura, specialmente da parte di Wachuka. Shiro invece era sempre abbastanza di cuore aperto e pronto a condividere qualsiasi cosa.
C: Ma ha anche fatto molto, molto sforzo per aprirsi.
M: Sì, sì, noi parlavamo anche con gli amici di Wachuka, poi le abbiamo mostrato un po’ del materiale insieme ad alcuni finanziatori venuti dagli Stati Uniti. La reazione dei finanziatori ha cambiato le cose, da allora sono state molto aperte e molto facili.
C: Abbiamo girato in sette anni molto materiale. È un film di cento minuti e dobbiamo aver girato probabilmente mille ore di materiale. Quindi sì, molto è stato tagliato. Abbiamo seguito le loro vite quotidiane, ma abbiamo deciso di mantenere il focus del montaggio sulla loro missione, con alcuni tocchi delle loro vite personali e di cosa stava succedendo fuori dalla biblioteca. Per noi, la storia è sempre rimasta più forte quando riguardava la biblioteca e la loro missione, piuttosto che andare a mostrare scene delle loro vite personali che in realtà non avevano nulla a che fare con la biblioteca.
M: Come ha menzionato Chris, avevamo molto materiale, ma per noi era davvero importante trovare l’equilibrio con quella che era la storia che volevamo raccontare. Essenzialmente la storia è “come costruire la biblioteca” quindi alla fine non siamo scesi troppo nel personale.
C: Semplicemente non faceva progredire la storia.
Alla fine di questi anni di lavoro siete soddisfatti del risultato? Siete interessati a continuare a lavorare insieme alla regia di documentari a sfondo sociale ed eventualmente anche a riprendere a seguire il percorso di Wachuka e Shiro con la biblioteca?
M: Abbiamo debuttato al Sundance a gennaio e abbiamo avuto solo due settimane per cercare di finalizzare e completare il film.
C: Il film non era finito quando lo abbiamo inviato.
M: Ci siamo affrettati in quelle due settimane per mettere tutto insieme, organizzare e finire. Ovviamente, vederlo poi al Sundance è stato un momento incredibilmente gratificante. Ma sapevamo che avremmo voluto modificare alcune cose, tenendo conto delle reazioni del pubblico. Quindi, in realtà, è stata solo la settimana scorsa che abbiamo finalmente deciso: “Ok, abbiamo finito il montaggio”. Sento che la versione che abbiamo ora è compatta, forte, emozionante; quindi, mi sento come se ora fossimo felici del risultato finale.
C: Il problema quando si realizza un documentario è che non siamo mai in controllo di ciò che il mondo reale ci offre. E sento che la frustrazione di alcune persone è esattamente ciò che volevamo che provassero. Anche noi ci siamo sentiti frustrati e infelici per il film perché eravamo frustrati e infelici per ciò che è successo nella vita reale. E questa è la natura del lavorare con i documentari. Tutto quello che facciamo è offrire uno specchio al mondo e mostrare com’è davvero. Le persone dovrebbero sentirsi frustrate e dovrebbero sentirsi infelici per il modo in cui queste donne hanno cercato di combattere e perché la loro visione non è ancora stata realizzata. Stiamo continuando a filmare, come ha detto Maya, siamo una squadra composta da marito e moglie, stiamo lavorando ad altri progetti, questo non è il nostro primo film, non è nemmeno il nostro ultimo.
M: Quando si lavora con le stesse persone per otto o dieci anni, avrai una relazione con loro per tutta la vita. Ci è successo con il nostro primo documentario, succederà anche con Shiro e Wachuka. In qualsiasi modo continueremo a incoraggiare le persone ad andare sulla loro pagina e donare, penso che sia un po’ come lavorare insieme. Questo è semplicemente il modo in cui funzionano i documentari.