50 giorni di cinema Firenze
Intervista a Paolo Bertolin, direttore del FánHuā Chinese Film Festival
Una selezione d’eccellenza del cinema cinese contemporaneo
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2 mesi agoon
Inserito nella kermesse dei festival fiorentini, chiamata 50 Giorni di Cinema a Firenze, il FánHuā Chinese Film Festival si è tenuto al Cinema La Compagnia dal 15 al 19 ottobre in una quinta edizione evidentemente in crescita.
Quest’anno la selezione offerta ha spaziato dal melodramma al film storico, dai registi esordienti ai nomi conosciuti, con la complicità di una prolifica annata cinematografica per la Cina
Taxidrivers ha fatto il punto con il direttore artistico Paolo Bertolin, e ha colto l’occasione per riflettere sullo stato delle cose di un mercato cinematografico, quello cinese, che non smette mai di stupire.
FánHuā Chinese Film Festival, l’intervista a Paolo Bertolin
Buongiorno Paolo e ben ritrovato. È la seconda volta, a distanza di qualche anno, che ci troviamo a parlare di FánHuā Chinese Film Festival, di cui sei direttore artistico. In questi anni è evidente come il festival abbia visto la sua base ingrandirsi, la selezione rendersi sempre più accurata. Probabilmente quest’anno si distingue per una certa fortuna produttiva, mi sembra, dal momento che la Cina ha piazzato diversi film positivamente accolti sia dai festival stranieri che dal mercato interno. Insomma la selezione è stata ricca e puntuale, e ha fornito una fotografia realistica su quello che sta succedendo adesso in Cina in termini di fermento artistico e cinematografico.
Per iniziare ti chiedo, visto che il Festival è appena terminato, la tua impressione: i numeri, l’affluenza, soprattutto le risposte, appunto, in relazione alla selezione di cui parlavo.
Come dicevi anche tu, rispetto al lavoro di quest’anno, siamo stati tutti molto felici della selezione: rispetto alla missione, al progetto specifico che vuole combinare da un lato il cinema d’autore, dall’altro il cinema d’intrattenimento, quest’anno gli 11 lungometraggi presentati restituivano effettivamente, con un ottimo equilibrio, entrambe le componenti. Abbiamo portato sugli schermi del Cinema La Compagnia, da un lato film premiati a Berlino piuttosto che a Venezia, ma dall’altro anche alcuni lavori che sono stati molto molto apprezzati dal pubblico locale e che hanno avuto successo presso le platee cinesi.
Quello che ci ha fatto ulteriormente piacere, in seconda battuta, è stata la risposta, come dicevi, del pubblico, perché effettivamente abbiamo riscontrato una crescita. Teniamo presente che il nostro è comunque un piccolo evento, la cui cerchia di azione o cerchia di influenza è più sul livello locale, non è certamente un evento di peso nazionale. Quindi i nostri numeri non sono numeri enormi. Però rispetto agli scorsi anni abbiamo avuto una crescita percentuale notevole, superiore al 65%, in termini di presenze.
Una cifra che ovviamente è dovuta alla spinta molto forte di alcuni titoli di richiamo per il pubblico cinese locale. La componente di intrattenimento, o comunque di richiamo per una platea vasta, ha funzionato molto bene e ci ha dato grande soddisfazione. Grazie a una platea varia, abbiamo potuto cogliere le diverse reazioni, sia del pubblico italiano sia di quello cinese — tra studenti e seconde generazioni — verso film apprezzati da entrambi.
In tal senso gli esempi più lampanti sono i due film che si sono contesi il Premio del Pubblico, che quest’anno si è chiuso con una differenza di un centesimo: Dead to Rights, che è il film che la Cina ha ufficialmente selezionato come proprio candidato all’Oscar per la categoria Miglior Film Internazionale, ha avuto una media del 4,78; il secondo classificato, Her Story, di Shao Yihui ha avuto una media del 4,77. Un paio di voti in più per questo secondo film con punteggi alti, avrebbero completamente ribaltato il risultato. […] E la risposta della platea italiana è stata tutto sommato congruente, non c’è stata una divaricazione netta tra queste due componenti del nostro pubblico rispetto ai due titoli.
Gianni Zhang, a destra, Presidente e Fondatore del FánHuā Chinese Film Festival, e Paolo Bertolin, a sinistra, Direttore Artistico, premiano il regista Shen Ao, al centro – immagini stampa fornite dal festival
Sì, infatti credo che la ragione sia perché sono obiettivamente dei bei film. In particolare vorrei soffermarmi sul caso di Death to Rights di Shen Ao: ti sembra che possa essere il film che finalmente rende merito alla gravità della tragedia del Massacro di Nanchino? Un soggetto che probabilmente fino adesso non aveva trovato una rappresentazione artisticamente e cinematograficamente all’altezza del trauma in questione.
Beh, sicuramente il film ha avuto una presa emotiva molto forte su entrambe le componenti del pubblico. Ovviamente il pubblico cinese parte con una conoscenza dell’evento storico. Questo film offre una opportunità di rivisitare questo evento traumatico attraverso una storia drammaturgicamente coinvolgente e anche commovente e quindi crea un’adesione totale. È ovvio che la maggior parte di noi italiani sia poco a conoscenza della storia orientale in generale, e di questo episodio, e immagino che la magnitudine di questo evento raccontata in maniera efficace e potente renda infatti la scoperta di questa tragedia molto forte. C’è da dire che c’era già stato un film molto bello, molto forte sull’argomento e fra l’altro relativamente recente City of Life and Death di Lu Chuan, che però suscitò tutta una serie di polemiche in Cina, sul modo in cui venivano rappresentati i giapponesi.
Dead to Rights è un film sicuramente più accessibile, che utilizza dei canoni di racconto molto immediati, più manichei forse, e quindi più chiaramente identificativi di una parte buona e di una cattiva. In tal senso c’è più facilità per entrambe le componenti del pubblico a identificarsi con le vittime; quindi il successo di questo film è sicuramente innegabile nel riuscire a creare questa empatia e coinvolgimento.
Tornando al ruolo del festival rispetto a questo: vedere questo film e comprendere come anche un evento storico così traumatico venga oggi raccontato e diventi un successo, è testimonianza di una importante tendenza culturale. Nel cinema popolare cinese delle grosse produzioni esiste oggi una tendenza, un filone produttivo importante che riflette sulla storia della Cina, in particolare su taluni eventi drammatici, traumatici e eroici in altri casi. Questo testimonia la volontà di riflettere sulla propria identità nazionale e storica in una maniera che sta forgiando, appunto, la coscienza collettiva della Cina contemporanea.
La Cina e il cinema al femminile
L’edizione di quest’anno del FánHuā Chinese Film Festival ha offerto anche uno scorcio sulla produzione al femminile dalla Cina. A tal proposito viene in mente il contendente per il Premio al Pubblico che hai citato prima, Her Story, perché è stato un po’ un film evento anche per i temi toccati. Sebbene la Cina abbia mostrato di andare controcorrente rispetto ai suoi vicini Corea e Giappone, per la sua maggiore apertura verso le questioni femminili, questo sguardo e, se mai può esistere, questa narrazione al femminile, a cosa ci porta?
Sì, assolutamente, devo dire che hai toccato un punto interessante. […] Rispetto alla questione del femminile dietro e davanti la macchina da presa, non mi era venuto in mente, soprattutto rispetto ai film di quest’anno, di fare una riflessione comparativa con Corea e Giappone.
Effettivamente è vero che negli ultimi anni ci sono stati alcuni (non tantissimi) film di intrattenimento e di successo commerciale notevole, talvolta enorme, che sono stati diretti da donne e in cui il baricentro tematico è comunque il femminile. E questo è un fenomeno sicuramente molto interessante, soprattutto nel momento in cui comunque a livello sociale e complessivo la questione femminile è ancora in progress. Tutto il discorso sull’emancipazione della donna è appunto un tema stringente ed è di successo, forse perché è un elemento che la società vuole discutere e vorrebbe affrontare in maniera più aperta. Credo che comunque, come succede spesso nelle realtà politico sociali che affrontano momenti di transizione o di sviluppo, la riflessione sul femminile o la presa diretta in mano da parte delle donne del discorso attorno a se stesse, è sintomatica proprio di questo momento di evoluzione e di potenziale cambiamento.
L’altro film (più commerciale) diretto da una donna che presentavamo era Big World di Yang Lina, con un protagonista maschile, disabile: quel che è interessante è notare come la mano femminile si impegni nel raccontare storie diverse, storie che altrimenti rimarrebbero nell’ombra.
Ecco quindi, sia Her Story che Big World come film rappresentativi di un cinema di intrattenimento o di marca più commerciale diretti da donne, rivelano questa tendenza a raccontare storie “minoritarie”, storie di solidarietà femminile, storie di solidarietà verso il diverso, la disabilità in questo caso specifico. Questi sono segnali molto positivi in termini di progresso di una discussione sociale che di cui il cinema si fa veicolo. Il fatto che a firmarli siano registe donne è particolarmente significativo.
Per allargare il discorso anche sul cinema d’autore e a una prospettiva storica, noi abbiamo chiuso il festival come da tradizione con un classico che celebrava il suo trentesimo anniversario, Blush di Li Shaohong, premiato a Berlino trent’anni fa con l’Orso Argento. Curiosamente, già trent’anni fa una pioniera del cinema femminile in Cina come Li Shaohong rifletteva esattamente su un scenario abbastanza prossimo a quelli di cui si parlava, perché adattando il romanzo di Su Tong ci raccontava una storia di solidarietà, amicizia femminile in un momento di cambiamento storico importante, quello della fondazione della Repubblica Popolare […].
Anche qui una lettura della marginalità della posizione femminile che si inscrive in un discorso sul disegno di storie altrimenti non raccontate a una grande platea. Certo in quel caso si trattava di un film d’autore, […], ma c’è quasi un imprinting abbastanza similare nel voler fare luce su angoli di storia […] che altrimenti il racconto mainstream ignorerebbe.
FanHua Chinese Film Festival – Paolo Bertolin – immagini stampa fornite dal festival
Un ospite di eccezione
Mi fa piacere che tu ci abbia condotto da Her Story a Blush per chiudere il cerchio su questa riflessione sulla femminilità.
A seguire vorrei invece che ci raccontassi come invece è stata l’accoglienza del vostro ospite, il regista Lin Jianjie, Premio Nuovi Talenti, che ha presentato un film non immediato, con diversi piani di lettura, Brief History of a Family, e un suo recente cortometraggio, Hippopotami.
È stato sicuramente interessante per il nostro pubblico, la risposta è stata positiva. Il regista ha una formazione un po’ particolare perché Lin Jianjie ha studiato all’estero, presso il campus asiatico della Tisch University di New York […] e quindi è evidente che si tratta di un regista che ha un approccio deliberatamente internazionale, deliberatamente attento all’universalità della sua storia, cosa che nel suo lungometraggio si manifesta già dalla collocazione in una città che non viene mai chiaramente definita. Ovvio che commenta aspetti di quella che è la realtà della società cinese contemporanea ma mantenendosi a un livello di presentazione dei personaggi e degli eventi che potrebbe essere traslato in qualsiasi contesto di società contemporanee nel contesto urbano. Questo è un tentativo di accessibilità e di riconoscibilità di certe coordinate del racconto.
È altrettanto vero che esistono all’interno di questo film alcune specifiche dinamiche veramente molto radicate nella realtà cinese, a cominciare dal fatto che questo è un film che riflette anche sul post Politica del Figlio Unico, che per lungo è stato uno dei fondamenti della politica demografica della Repubblica Popolare e che solo in anni recenti è stato dismesso. Questo film in qualche modo si interroga sul lascito di quel lungo periodo in termini di come si sono venute a strutturare le relazioni all’interno delle famiglie.
È un problema specificamente locale, forse questa è una delle cose che magari sono più sottilmente raccontate, magari sfuggono a una platea occidentale. Ma non credo che pregiudichi la comprensione del film: come molti hanno osservato si tratta di una misteriosa disanima del nucleo familiare attraverso il topos della figura esterna che si insinua tra i membri di una famiglia, li seduce individualmente, separatamente e crea potenzialmente delle divisioni, una riconfigurazione di rapporti e legami forse già in qualche modo compromessi o in via di disfacimento. Questo paradigma è universale ed è raccontato in maniera sottilmente misteriosa e accattivante, che lascia sovente più delle domande che delle risposte.
La periferia geografica e temporale
Vengo, personalmente, facilmente catturata dalla fotogenia dei volti della terza età cinese. In questi film, tra cui ad esempio la vostra selezione Living the Land di Meng Huo – che a un primo sguardo mi ricorda un altro film che ho amato, Fly with the Crane di Li Ruijin di oltre un decennio fa –, c’è ancora questa fascinazione rispetto alla periferia cinese, questa grande sconosciuta, e al popolino che la abita. Tra le fila di queste piccole storie periferiche e invecchiate, è lì dove vedo meglio muoversi il talento, la sensibilità asiatica e in questo caso cinese.
Ritieni che il pubblico del FánHuā Chinese Film Festival abbia trovato più prossimità con queste storie ai margini oppure hai visto il pubblico più appassionato per i grandi budget, magari gli action movie hongkongesi o il solito Jackie Chan?
Si può sicuramente pensare che esistano diverse componenti di pubblico: ci sono spettatori anche provenienti dalla comunità cinese, che sono più interessati alle produzioni più commerciali o più di intrattenimento, più chiacchierate. D’altro canto però, abbiamo inevitabilmente, come in tutti i festival, uno zoccolo duro di pubblico interessato al cinema d’autore. Questa è la platea che ha risposto di più a film come Living in the Land o The Botanist.
Tornando al discorso che facevi sull’aspetto diciamo tutt’altro che irrilevante, cioè quello di una diversità topografica o geografica, direi che questa componente è sicuramente, rispetto alla produzione d’autore e la produzione da festival, uno degli elementi più interessanti del cinema cinese degli ultimi anni.
Continua a resistere un racconto della lontananza dalla grande città, della Cina altra, vuoi culturalmente, etnograficamente e linguisticamente. Al di là del discorso che si può fare sull‘urbano versus rurale, c’è anche tutta una questione di entroterra che ha a che vedere con le varie identità cinesi. […]
Quest’anno, per esempio, un film come The Botanist ci racconta di una comunità molto specifica, quella della minoranza kazaka che esiste nello Xinjiang. Quindi gran parte del film è parlato in un kazako: tra l’altro molto interessante vedere come il kazako cinese è scritto in carattere arabico, mentre in Kazakstan come Repubblica Indipendente sovietica scrive comunque la propria lingua in cirillico.
Il racconto di queste minoranze al di là del valore etnografico e culturale, che è comunque rilevante, […] ci dice che c’è stata un’evoluzione importante nel permettere che un racconto si discosti dai paradigmi riconoscibili di un’identità che non è più monolitica, ma che accoglie queste diversità e che permette loro di esistere.
Sì, è una sofferta, sotto un certo punto di vista, ma anche tanto attesa inversione di rotta dall’idea di uniformità statuaria della Cina. Il fatto che anche il cinema abbia accolto e stia celebrando questa diversità per me è una maturità raggiunta, che non era così scontata, perché sappiamo che la realtà cinese da questo punto di vista mette in atto meccanismi complessi…
Ti faccio l’ultima domanda, che però riguarda il film di apertura: avete scelto di inaugurare questa quinta edizione del FánHuā Chinese Film Festival con The Sun Rises on Us All, che ha conquistato la Coppa Volpi a Venezia, ma è un melodramma popolare; quindi, se vogliamo un genere meno “prestigioso”. Vorrei quindi chiudere la nostra riflessione sullo stato delle cose del cinema cinese, con un commento sul film di apertura che è un punto fondamentale per un festival perché di solito ne rappresenta l’imprinting generale.
Credo che il film di apertura sia abbastanza emblematico: sebbene appartenga alla categoria del cinema d’autore, Cai Shangjun è un regista che ha realizzato film che anche per il pubblico cinese sono più di nicchia, più visti o riconosciuti a livello internazionale. Ricordo che aveva anche già vinto un Leone d’Argento alla mostra di Venezia con People Mountain People Sea, ma il suo nome e il suo lavoro non sono stati così diffusi e apprezzati in Cina. The Sun Rises on Us All, forse per la qualità delle interpretazioni sicuramente notevoli, potrebbe essere un viatico per un riscontro potenzialmente più ampio, ma non è prevedibile capire quale potrà essere il responso delle sale cinesi, soprattutto con i premiati ai festival internazionali
Detto questo, è assolutamente vero che The Sun Rises on Us All è un film che utilizza tutta una serie di espedienti drammaturgici che sono iscritti nel codice del melodramma. Per questo, con un racconto più dilatato e forse lento per i canoni del cinema popolare, arriva a toccare delle corde emotive forti che possono travalicare i confini della Cina.
Infatti, il successo che il film ha avuto, tanto a Venezia quanto a Firenze, è sicuramente testimone di questa riuscita tra i due versanti: in tal senso era una scelta quasi obbligata rispetto a quel posizionamento di apertura, nel momento in cui si voleva ribadire da parte nostra la doppia missione, il doppio percorso di avvicinamento della nostra platea al cinema cinese. Da un lato il meglio del cinema d’autore e dall’altro l’intrattenimento popolare, il genere, il cinema di grande pubblico: forse questo era il film che riusciva a collocarsi più a mezza via, e quindi a rappresentare anche una capacità, speriamo sempre più sviluppata, di esercitare un appeal presso entrambe le componenti del pubblico in generale, e del nostro festival nello specifico.