Prendiamo la sindrome di Stoccolma de Il silenzio degli innocenti e uniamola alla sperimentale cura Ludovico di Arancia Meccanica. Il risultato è Good boy, diretto con grande maestria dal polacco Jan Komasa – uno dei nomi destinati, si spera, a diventare molto noti in futuro – è uno studio antropologico e psicologico sulla nostra personalità e condizione esistenziale, con un giovane Anson Boon nei panni di un ragazzo costretto a confrontarsi con se stesso, fino a scoprire il vero significato del dolore.
Dopo una serata di svago, il diciannovenne Tommy – abituato a una vita fatta di violenza, tradimenti e droga – viene rapito da uno sconosciuto. Al risveglio si ritrova incatenato nel seminterrato di una casa isolata, abitata dall’uomo e da sua moglie Kathryn. Da quel momento, diventa il soggetto di un inquietante esperimento di “riabilitazione” condotto dalla coppia, mentre tenta disperatamente di trovare una via di fuga che appare ogni istante più impossibile.
Good boy: Una claustrofobia che affascina
Ammettiamolo: Good Boy è una pellicola che, durante la visione, lascia aperti numerosi interrogativi. Sono molte le domande che affiorano scena dopo scena, i dubbi a cui si tenta di dare una risposta, e proprio questa sua enigmaticità rappresenta uno degli aspetti più affascinanti dell’intera narrazione. Le luci stroboscopiche dei locali frequentati dal giovane protagonista aprono il film: tutto è caotico, frenetico, il tempo sembra dissolversi in un’illusione. È un vortice visivo privo di identità definita. Eppure, all’improvviso, quel disordine, quel rumore, quella musica assordante subiscono una trasformazione inaspettata.
La casa in cui il giovane Tommy si risveglia appare ordinata, impeccabile, curata in ogni dettaglio. E lui, più che un semplice prigioniero, sembra un “ospite” sottoposto a un trattamento particolare. Si ha l’impressione di trovarsi in un luogo in cui l’eccesso di ordine e di eleganza, proprio perché in contrasto con la condizione reale del protagonista, genera un senso di inquietudine ancora più profondo. La violenza, certo, non manca, ma emerge sempre come conseguenza diretta del comportamento del ragazzo, che tenta in ogni modo di ribellarsi a quello che pare un gioco perverso. Tommy riporta in superficie ricordi e allusioni legate al passato della coppia: mentre il marito lo osserva con rabbia, la moglie lo guarda con una tenerezza quasi materna, come se fosse una creatura partorita da lei stessa. Il trattamento che gli riserva, per quanto anomalo e disturbante, sembra avere alla base una forma di amore malato ma autentico.
Tutto nasce dalla famiglia
Fin da piccoli ci viene insegnato che la rabbia repressa e ingiustificata nasce spesso proprio all’interno della condizione familiare. Durante la prigionia, questo sentimento riaffiora più volte in Tommy, riflesso e complementare al tempo stesso di quello provato dalla donna. Nel ragazzo riecheggia costantemente un desiderio di fuga e vendetta, ma all’orizzonte il comportamento, le situazioni e gli sguardi sembrano comunicare altro. Nei gesti, negli sguardi e nei silenzi affiora una tenerezza sottile, quasi malinconica, che coinvolge anche lo spettatore, messo di fronte al dilemma di provare empatia per un ragazzo che, in fondo, di male ne ha commesso molto.
Non si deve per forza definire Good Boy come un vero e proprio coming of age, ma molti elementi lo richiamano in modo evidente. Il percorso del protagonista – un viaggio verso il riconoscimento del dolore inflitto e la riscoperta del significato di famiglia – assume la forma di una parabola intensa, al tempo stesso malinconica e brutale, capace di fondere il dramma domestico con l’horror da isolamento. Il risultato, che si spera possa approdare presto nelle sale, è un film che inquieta, fa riflettere e intrattiene, mantenendo lo spettatore costantemente incollato allo schermo e facendolo sentire parte di quella stessa, soffocante prigionia familiare vissuta dal protagonista.