Dal 20 ottobre al cinema Lasciatemi morire ridendo, il documentario su Gheller, diretto da Massimiliano Fumagalli. Una produzione di Dreamscape Film, distribuito da MescalitoFilm.
Massimiliano Fumagalli realizza un classico biopic che ricostruisce la vita di Stefano Gheller, seconda persona in Italia ad ottenere il diritto al suicidio assistito su suolo italiano, la prima in Veneto. Il giovane regista e sceneggiatore realizza un ritratto quotidiano del protagonista. Attraverso testimonianze di amici, parenti ed esponenti di associazioni, tocca temi spinosi che, da decenni, attraversano il tessuto sociale. Oltrepassa le tragiche conseguenze di una terribile malattia e costruisce un ritratto – anche ironico – di un uomo capace di lasciare un prezioso testamento morale.
Lasciatemi morire ridendo: la libertà di scegliere
Nonostante avesse deciso di morire già da anni, Stefano ha scelto di evitare il viaggio in Svizzera, rimanendo a combattere nel suo paese di nascita. Il documentario va ad analizzare il rapporto conflittuale tra la voglia di vita di Stefano e la sua malattia. La figura di Stefano viene delineata attraverso varie interviste e materiale di repertorio, che si mescolano con il fil rouge della sua opprimente quotidianità che ci accompagna lungo tutta la narrazione, terminando con uno sguardo sui suoi ultimi giorni di vita [sinossi ufficiale].

La morte dignitosa
È il febbraio del 2006, quando viene a mancare Luca Coscioni, da anni malato di sclerosi laterale amiotrofica. A distanza di circa un anno lo stesso destino tocca a Piergiorgio Welby. Accanto a loro due donne: Maria Antonietta per Luca e Mina per Piergiorgio. Compagne d’amore, di vita, ma soprattutto di lotta politica, con lo scopo di ottenere una morte dignitosa. E anche accanto a Stefano, protagonista di Lasciatemi morire ridendo, c’è una donna, sua sorella Cristina, malata anche lei di distrofia muscolare.
Cristina non fa mancare il suo sostegno al fratello più sfortunato che, dopo un’operazione subita a 14 anni, non è stato più in grado di camminare e la distrofia muscolare ha fatto il resto, costringendolo a letto e a respirare attraverso una macchina. Quello di Stefano Gheller è un percorso esistenziale fatto di sofferenza e dolore, non diverso da quello vissuto da Luca Coscioni e Pergiorgio Welby, Eluana Englaro e Fabiano Antoniani. Una lista che potrebbe continuare, fatta di nomi, storie, destini drammatici che si intrecciano, quando il proprio corpo diventa una gabbia, una prigione e l’unica via d’uscita è il desiderio di una morte dignitosa, troppo a lungo ostacolata da legislatori sordi e ciechi dinnanzi al dolore di malati, ma prima di tutto cittadini.
L’eredità di Stefano Gheller
Dopo circa vent’anni dalla morte di Luca Coscioni e Piergiorgio Welby qualcosa è cambiato. Oggi in Italia il suicidio medicalmente assistito è consentito, grazie alla sentenza del 2019 della Corte Costituzionale. Un traguardo importantissimo raggiunto dopo tante iniziative politiche, come la raccolta firme sul testamento biologico e la proposta di legge popolare per l’eutanasia legale, campagne promosse dall’Associazione Luca Coscioni, la quale, attraverso il suo tesoriere, Marco Cappato, con un’azione di disobbedienza civile (assistendo Fabiano Antoniani in un viaggio verso la Svizzera, dove ha praticato l’eutanasia) ha costretto la giurisprudenza italiana a prendere la direzione di una morte dignitosa, anticipando un parlamento ancora passivo su una tematica così importante.
Una premessa necessaria per raccontare il film documentario di Massimiliano Fumagalli che nasce nel 2022, “all’interno di un contesto politico che continua a trattare il fine vita in maniera completamente ideologica e lontana dalla realtà”. Il regista si è posto l’obiettivo di trattare la delicata questione nella maniera più autentica possibile e l’incontro con Stefano Gheller è stato decisivo.

Una battaglia di civiltà
“Negli ultimi due anni è nato un rapporto di osservazione ma, preferirei dire, anche un rapporto di amicizia. Tutta la pesantezza della tematica ha subito lasciato spazio alla sua brillantezza. Questa voglia di vita parrebbe una contraddizione in merito alla sua battaglia, ma non è così. Stefano amava la vita, proprio per questo l’aveva rimessa in discussione”.
Così Massimiliano Fumagalli ci racconta le genesi del suo film e coglie l’occasione per fornirci un aspetto fondamentale, una costante quando si parla di fine vita. Il desiderio di una morte dignitosa, non è mai disprezzo per la vita… tutt’altro!
La vita di Stefano, raccontata in Lasciatemi morire ridendo, diventa, per dichiarata volontà, un testamento morale. Una preziosa eredità, uno strumento di lotta e rivoluzione civile non-violenta a difesa dei diritti. Tutto ciò non può che essere amore per gli altri e per la vita. Come è successo a Luca Coscioni, costretto a comunicare con l’esterno attraverso un sintetizzatore vocale, ma che non rinuncia, nel 2001 a un’estenuante campagna elettorale, con il sostegno di Emma Bonino e Marco Pannella, con l’obiettivo di portare in parlamento la sua battaglia di civiltà.
Un diario esistenziale polifonico
È l’incontro di Stefano Gheller con questa realtà politica a determinare la volontà di raggiungere la Svizzera e, come Fabiano Antoniani, praticare l’eutanasia. La scelta crea un dibattito all’interno del tessuto narrativo del film, articolato sulle interviste dei vari testimoni della vita del protagonista. Tra queste quelle di Diego Silvestri, dell’Associazione Luca Coscioni e Beniamino Pizziol, già Vescovo emerito di Vincenza.
Ma come già è stato accennato, Massimiliano Fumagalli riesce a oltrepassare la malattia di Stefano. La scelta dell’eutanasia diventa una sorta di micro capitolo del film, che si sviluppa sull’intera vita di Stefano. Così intervista dopo intervista emerge la personalità del suo protagonista, un ragazzo e poi un uomo allegro, ironico e anticonformista.
In questa alternanza di voci, che il regista ha voluto costruire in maniera teatrale per lasciare imprimere le parole, viene fuori il rapporto tra Stefano e sua sorella Cristina. Due fratelli che litigano, che si amano, ma soprattutto che si sono alleati contro una terribile malattia che li accomuna.
Poi, c’è il rapporto tra Stefano e sua madre, che ha trasmesso la malattia ai suoi due figli. La figura materna è un’apparizione, un sogno, un ricordo sbiadito che riemerge nella mente, tra amore e odio.
In questo suo film documentario Massimiliano Fumagalli riesce a rendere il privato pubblico e dunque politico. Il particolare diventa universale, senza ricorre a nessuna sorta di spettacolarità. La narrazione è sincera, genuina, naturale, un diario esistenziale polifonico che diventa strumento politico. Dunque non ci resta che augurare buona vita a Lasciatemi morire ridendo, un’opera scritta e diretta da un giovane regista e prodotta da una giovane produttrice, Virginia Rosaschino.
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