Die Dame mit der Maske è un film muto tedesco del 1928, diretto da Wilhelm Thiele, un regista noto per la sua transizione dal teatro al cinema durante l’epoca della Repubblica di Weimar. Prodotto dalla UFA (Universum Film AG), la più grande casa di produzione cinematografica tedesca dell’epoca, il film si inserisce nel ricco panorama del cinema espressionista e realista tedesco degli anni ’20, un periodo segnato da crisi economiche, inflazione galoppante e fermenti sociali. Uscito proprio alla vigilia della Grande Depressione, il film riflette le ansie di un’aristocrazia in declino e l’ascesa di una borghesia speculatrice, temi ricorrenti nella cultura weimariana. Con una durata di circa 93 minuti (2520 metri di pellicola distribuiti in sei atti), il film è un dramma sociale con elementi di melodramma e satira, che esplora il sacrificio personale e la perdita dell’identità in un mondo spietato. La sua prima proiezione avvenne il 26 settembre 1928 al Kammer-Lichtspiele di Berlino, dopo un iniziale divieto di censura per “contenuti immorali” dovuto alle scene di revue con donne seminude – un divieto revocato dopo soli sei giorni e con tagli minimi (appena 23 metri). Oggi, il film è conservato in archivi come il Deutsche Filminstitut (DIF) e rappresenta un esempio minore ma affascinante del cinema muto tedesco, spesso oscurato da capolavori come Metropolis o L’ultima risata, ma prezioso per il suo ritratto crudo della modernità.
Il film verrà proiettato mercoledì 8 ottobre in onore della 44esima edizione delle Giornate Del Cinema Muto al Pordenone Silent Film Festival.
La doppia vita di Doris
La storia ruota attorno a Doris, una giovane nobildonna interpretata dalla affascinante attrice francese Arlette Marchal, la cui famiglia è stata travolta dall’iperinflazione post-Prima Guerra Mondiale. Il padre, il barone von Sonderegger (Max Gülstorff), un tempo ricco e orgoglioso, è ridotto alla miseria, incapace di adattarsi a un mondo che ha smantellato le vecchie gerarchie sociali. Doris, determinata a salvare l’onore familiare, abbandona il lusso decadente della sua vita aristocratica e si immerge nel caotico mondo del lavoro urbano, diventando attrice in piccoli teatri per mantenere il padre all’oscuro della sua nuova realtà.
Attraverso l’intervento di un emigrato russo (Vladimir Gajdarov), Doris ottiene un ingaggio in un teatro di revue berlinese, un ambiente scintillante ma degradante, popolato da ballerine provocanti e impresari senza scrupoli. Per preservare la sua anonimità e l’apparenza di rispettabilità, insiste per esibirsi con una maschera che cela il suo volto, trasformandosi nella misteriosa “Dame mit der Maske”. Questo espediente non solo la protegge dagli sguardi indiscreti della società, ma simboleggia la sua doppia vita: da un lato, la figlia devota e innocente; dall’altro, una donna che naviga tra seduzione, umiliazione e ambizione in un mondo dominato da figure come Hanke (Heinrich George), un finanziere volgare e predatorio che rappresenta la nuova classe emergente di speculatori.
La trama si sviluppa in un crescendo di tensioni: Doris deve bilanciare le prove in teatro con le visite segrete al padre, mentre Hanke, ossessionato dalla figura mascherata, la perseguita con avance sempre più insistenti. Una festa in villa organizzata dal finanziere diventa il fulcro di un confronto drammatico, dove la maschera rischia di cadere metaforicamente, rivelando le crepe tra apparenza e realtà. Il film alterna scene di intimità familiare a sequenze vivaci di cabaret, culminando in un climax che interroga il prezzo della sopravvivenza morale in un’era di disillusione. Senza dialoghi, la narrazione si affida a intertitoli sobri e a un ritmo serrato, che cattura l’essenza del melodramma weimariano: non solo dramma personale, ma critica sociale alla corruzione post-
La sceneggiatura, firmata da Henrik Galeen (famoso per collaborazioni con Murnau e Wiene) e Alexander E. Esway, è un adattamento originale che attinge a temi dickensiani di caduta sociale, ma li contestualizza nella Berlino degli anni ’20, con un’attenzione particolare al ruolo delle donne nel mercato del lavoro emergente.

Arlette Marchal
Un cast variegato
Il cast è un misto di talenti tedeschi e internazionali, tipico delle produzioni UFA che puntavano su volti esotici per attrarre il pubblico. Arlette Marchal, al suo debutto cinematografico significativo, è il cuore pulsante del film: la sua Doris è una figura tragica e sensuale, con occhi espressivi che trasmettono vulnerabilità e determinazione. La Marchal, musa di registi francesi come Clair e Feyder, porta un tocco di eleganza parigina che contrasta con il cinismo berlinese, rendendo la sua performance un ponte tra il realismo tedesco e il romanticismo francese.
Max Gülstorff, veterano del teatro e del muto (apparso in oltre 200 film), incarna il barone con una malinconia commovente: il suo personaggio è un relitto dell’antico regime, orgoglioso ma fragile, e Gülstorff usa il linguaggio del corpo – sguardi persi, gesti stanchi – per comunicare il peso della sconfitta. Heinrich George, uno dei più carismatici attori weimariani (noto per ruoli in Mutter Krausens Fahrt ins Glück e film nazisti successivi), ruba la scena come Hanke: il suo interprete è un ritratto magistrale del “parvenu” borghese, un uomo grasso e sudaticcio che incarna la volgarità del capitalismo rampante, con espressioni facciali che oscillano tra lussuria e avidità.
Vladimir Gajdarov, emigrato russo con un background teatrale, aggiunge un tocco di mistero al ruolo dell’agente teatrale, mentre figure secondarie come Dita Parlo (in un cameo precoce) e Fritz Kampers arricchiscono il tessuto corale del mondo del cabaret. Complessivamente, le performance sono exemplary del muto: non urla o gesti teatrali eccessivi, ma un’intimità visiva che anticipa il cinema sonoro.

Dita Parlo
Un bianco e nero magnetico ed un innovativo uso della maschera
Wilhelm Thiele, regista austriaco con esperienza in commedie (come Das Mädchen mit den fünf Nullen), dirige con un occhio al realismo sociale, evitando gli eccessi espressionisti per optare per un approccio più documentaristico. Le riprese, effettuate nei leggendari studi UFA di Neubabelsberg (Babelsberg) nel primavera 1928, alternano set realistici – interni borghesi fatiscenti, teatri affollati – a sequenze stilizzate nelle revue, illuminate da luci al neon che evocano il cabaret berlinese degli anni ’20.
lo stile visivo è un caratteristico bianco e nero, formato 35mm, che privilegia close-up intensi sul volto mascherato di Doris, enfatizzando il tema dell’alienazione. Le scenografie, curate da Erich Czerwonski (un veterano UFA), ricreano fedelmente la Berlino weimariana: dai palchi luccicanti ai vicoli umidi, con un’attenzione ai dettagli come costumi provocanti e arredi art déco.
Il montaggio è fluido, con transizioni che legano il privato al pubblico attraverso montaggi paralleli (la vita familiare vs. le prove in teatro), e la colonna sonora originale (per proiezioni con accompagnamento dal vivo) probabilmente enfatizzava i contrasti emotivi con valzer malinconici e ritmi jazzistici. Tecnicamente, il film è un prodotto UFA di alta qualità: 2520 metri di pellicola che scorrono senza cali di ritmo, anche se oggi le copie sopravvissute (come quella restaurata dalla Murnau-Stiftung) mostrano inevitabili graffi e sbiadimenti.
Un aspetto innovativo è l’uso della maschera non solo come prop narrativo, ma come metafora visiva: in un’era di crisi identitarie, nasconde e rivela simultaneamente.

Una critica feroce alla società di Weimar e all’ipocrisia sociale
Al cuore di Die Dame mit der Maske c’è una critica feroce alla società weimariana: l’inflazione non risparmia nessuno, nemmeno la nobiltà, e costringe le donne a un doppio gioco tra moralità borghese e sopravvivenza economica. Doris incarna la “nuova donna” – indipendente, ma vulnerabile allo sfruttamento – un tema che riecheggia in film come Asphalt di Dupont o le opere di Pabst. La maschera simboleggia l’ipocrisia sociale: protegge Doris dal giudizio, ma la isola, riflettendo la frammentazione dell’identità nella modernità urbana. Hanke, con la sua lussuria predatoria, rappresenta la minaccia del patriarcato capitalista, mentre il padre evoca la nostalgia per un ordine perduto.

Un gioiello dimenticato
Criticamente, il film ricevette recensioni miste all’epoca: lodato per le performance (soprattutto George) e la critica sociale, ma criticato per le scene di revue “scandalose”, che portarono al breve divieto.
Oggi viene visto come un ponte tra melodramma e realismo, con un sottotesto femminista ante litteram. Non è un capolavoro, ma un documento vivo della repubblica di Weimar: sensuale, tragico e profetico della crisi imminente.
Die Dame mit der Maske è un gioiello dimenticato del muto tedesco, un film che cattura l’essenza di un’epoca in bilico tra glamour e rovina. Con la sua protagonista mascherata che danza sul filo del destino, Thiele ci regala un ritratto toccante della resilienza femminile in un mondo ostile. Pur non raggiungendo le vette artistiche di contemporanei come Lang o Murnau, merita riscoperta per la sua vitalità emotiva e storica.