Soundscreen Film Festival

‘Aquarium’, tra solitudine e disagio generazionale

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Presentato in concorso al Soundscreen Film Festival, Aquarium è il corto del finlandese Jonathan Guzmán Monet. Un viaggio, tra senso di inadeguatezza e bisogno di connessione umana, sogni a occhi aperti e una realtà sempre più distante, raccontato dal regista con sguardo empatico e inventivo.

Aquarium: la trama

Dopo giorni passati in casa “a marcire”, Aida (Ella Lymi) decide finalmente di uscire per andare a una festa. Da subito, però, si rende conto di essere un pesce fuor d’acqua in mezzo a quella gente e a quei discorsi distanti anni luce da lei. Almeno fino a quando non conosce Leon (Roderick Kabanga), con cui da subito entra in sintonia. Che la sua solitudine abbia finalmente i giorni contati?

Un sentimento universale

Mi annoiavo alle feste, mi annoiavo alle cene, cantava il poeta, dando voce a quello stesso disagio millennials che sembra informare anche un corto così lontano dalle nostre latitudini come Aquarium. Perché se è vero che nell’opera del finlandese Jonathan Guzmán Monet sembra esserci lo stesso irriducibile senso di inadeguatezza di altri recenti racconti generazionali scandinavi di (de)formazione come La persona peggiore del mondo o Sick of Myself, è anche vero che il sentimento che racconta è tutt’altro che circoscritto.

Tra dramma, umorismo ed empatia

Un tema che travalica i confini, insomma, qui incarnato da un personaggio smarrito e irrimediabilmente fuori posto e contesto, perso tra fantasie romantiche e una realtà da cui sembra non possa fare a meno che (auto)isolarsi. È proprio questa tensione, questo tentativo di fuggire dalla solitudine (“da piccola sognavo di essere un pinguino perché i pinguini non stanno mai da soli”) e allo stesso tempo di non poterne fare a meno, il fulcro di Aquarium. Uno straniamento che, oltre che tematico, diventa presto anche espressivo, isolando la protagonista persino dentro alle inquadrature più affollate (gli invitati alla festa che sembrano muoversi a un’altra velocità) o relegandola a momenti di intimità fragili come sogni a occhi aperti.

Sta in questo, in fondo, il miglior pregio della regia di Guzmán Monet, nel dare una forma non (sempre) scontata a un sentimento ormai fin troppo riconoscibile, raccontandolo senza scadere nello stereotipo. Il risultato è un piccolo viaggio tragicomico e sofferto pieno di umorismo ed empatia, cui si perdona anche un finale (il bagno liberatorio in mare) tra i più abusati nella storia del cinema recente.

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