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Mosaico d’Europa Film Fest: “The Missing Picture” di Rithy Panh

In questo stesso weekend, mentre a Bologna il Future Film Festival si avviava verso la conclusione, un’altra manifestazione cinematografica cui siamo particolarmente legati prendeva il via, nella vicina Ravenna: il Mosaico d’Europa Film Fest

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In questo stesso weekend, mentre a Bologna il Future Film Festival si avviava verso la conclusione, un’altra manifestazione cinematografica cui siamo particolarmente legati prendeva il via, nella vicina Ravenna: il Mosaico d’Europa Film Fest. Praticamente quanto di meglio ha saputo offrire il cinema europeo, a livello di opere passate durante l’anno nei principali festival, da spalmare in una settimana di proiezioni accanto a retrospettive decisamente sfiziose. Il festival ha avuto inizio sabato 5 aprile. Noi ci siamo affacciati domenica sera e, come a sintetizzare le due anime della manifestazione, alle quali si era accennato prima, ci siamo trovati di fronte due capolavori: Uomini contro di Francesco Rosi e The Missing Picture di Rithy Panh.

C’è da supporre che il gran film diretto nel 1970 da Rosi e interpretato, tra gli altri, da un ispiratissimo Gian Maria Volonté, sia noto ai più. Da parte nostra lo si è voluto ammirare per l’ennesima volta sul grande schermo, dopo esser passati anche per la lettura di Un anno sull’altipiano, appassionante libro di memorie al quale il film è ispirato e con cui  Emilio Lussu testimoniò la propria esperienza personale, costellata di orrori e di angoscia, nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Prima di tale proiezione erano passati sullo schermo altri orrori (persino più difficili da descrivere), altri dolorosi ricordi, altri momenti di angoscia, altre divise portatrici di morte. Il riferimento è ovviamente a The Missing Picture, un’opera cinematografica di sconvolgente bellezza, in cui il ricordo del raccapricciante genocidio che gli Khmer Rossi perpetrarono nella Cambogia di Pol Pot e la dolorosissima esperienza personale del regista, il quale sopravvisse allo sterminio perdendovi però tutti i suoi cari, si intrecciano inesorabilmente.

Già in altre occasioni Rithy Panh, quasi un Primo Levi armato di macchina da presa, aveva documentato con una profonda tensione etica, lucidità di sguardo e innegabile costernazione ciò che il suo popolo dovette subire, nel nome di un’interpretazione ottusa, fallace e distorta degli ideali comunisti. Ne è un esempio l’ormai celebre documentario realizzato nel 2003, S-21, la machine de mort Khmère rouge. Ma qui il cineasta cambogiano ha superato ogni aspettativa, nell’ancorare a pupazzi di plastilina e a vecchi filmati di propaganda un’opera che assorbe e scavalca tutti i generi, tutte le forme dell’immaginario cinematografico, pur di dar voce alle sofferenze di coloro le cui immagini cominciano a sbiadire nel tempo, come inghiottite dal vortice e dalla fossa comune della Storia. Tra animazione, documentario, fiction e riprese sperimentali si prova a dar forma a un ricordo, al fantasma di immagini mancanti (e sostanzialmente impossibili da rappresentare) che possono alludere alle vite scomparse, alla violenza senza freni di quel regime che seppe trasformare un ideale giusto e d’impronta umanistica nel quotidiano succedersi di pratiche crudeli, barbare, disumane, in tutto e per tutto degne dei lager nazisti. Lo spettatore è così tenuto per mano lungo le tappe di questo interminabile viaggio nell’abominio, da parte di un regista formatosi attraverso esperienze di vita estreme e dotato comunque di una particolare sensibilità, che gli ha persino permesso di imprimere i volti sofferenti dei propri cari, scomparsi in modo così atroce, su quelle sagome di plastilina solo apparentemente neutre e impassibili.

Stefano Coccia        

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