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Ildikó Enyedi: la regista che trasforma il reale in un sogno

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Cosa succede quando il rigore dell’economia, la profondità della filosofia e la libertà assoluta dell’arte si incontrano? Nel caso di Ildikó Enyedi, nasce un cinema che non racconta solo storie. Costruisce mondi sospesi, dove il quotidiano si tinge di visionario e il surreale diventa naturale. Prima di diventare regista, Enyedi ha studiato economia e filosofia. Ha fatto inoltre parte di un collettivo artistico sperimentale nell’Ungheria post-comunista, in un laboratorio di libertà, in un paese appena uscito dal controllo ideologico.

“Non ho mai pensato di adattarmi al mercato. Il cinema per me è un atto di fede: se non credi in quello che stai facendo, non vale la pena farlo.”

Questa distanza dai compromessi ha formato il suo linguaggio. Ogni immagine nasce da un’urgenza interiore, non da un calcolo produttivo. I silenzi e le pause non sono estetismi. Sono parte di una visione: il cinema come spazio sacro. Quest’anno approda a Venezia all’82esima edizione. Non come semplice presenza, ma come ritorno in grande stile. Dopo l’Orso d’Oro a Berlino per Corpo e anima, Enyedi torna in un’arena capace di amplificare il suo sguardo. Ma il cuore del suo sguardo si svela solo quando la realtà comincia a incrinarsi, e il sogno entra in scena senza chiedere permesso.

Un cinema tra realtà e sogno

Il mondo di Ildikó Enyedi vive sul filo di un confine. Realtà e simbolo non si respingono: si inseguono. Nei suoi film, l’onirico non è una fuga, ma continuità. Si insinua nel reale, lo contamina, lo trasforma.

La sua poetica ricorda Apichatpong Weerasethakul per la capacità di fondere quotidiano e sogno, o Alice Rohrwacher per il radicamento magico nella terra. Ma Enyedi ha un’impronta diversa: intellettuale e carnale.

In Il mio XX secolo (1989), due gemelle percorrono destini opposti sullo sfondo dell’invenzione della lampadina. La luce non è solo tecnologia: è rivoluzione, promessa, illusione. In Magic Hunter (1994), il mito medievale si incarna nella Budapest contemporanea, tra simboli arcaici e immagini che sfidano la logica. In Corpo e anima (2017), l’amore nasce tra due lavoratori di un mattatoio. Nella vita reale, si sfiorano con imbarazzo. Nei sogni, sono due cervi nella neve. Qui, corpo e anima diventano la stessa cosa.

Enyedi non procede mai in linea retta. Non accelera per arrivare a un punto. I suoi film chiedono allo spettatore di restare. Di abituarsi alla lentezza. Di lasciarsi avvolgere da un’immagine fino a sentirne il peso e la consistenza. Non c’è urgenza di spiegare, bensì urgenza di far vivere. Nei suoi mondi, il tempo non è un orologio: è una corrente sotterranea che decide lei quando accelerare e quando fermarsi.

Il tempo come respiro narrativo

Ildikó Enyedi non si limita a raccontare storie nel tempo; lo plasma, lo dilata, lo contrae, facendone un vero respiro narrativo. Non è una cronologia che interessa, ma la risonanza delle epoche. In Il mio XX secolo, attraversa i secoli, connette la fine dell’Ottocento all’alba del Novecento, intrecciando le vite di due gemelle con la storia stessa del cinema. Un film senza tempo, che fa sembrare nuove invenzioni ormai familiari, infondendo loro la meraviglia che un tempo possedevano.

La regista non teme di mescolare i piani temporali. Infatti, in The Magic Hunter, la Budapest moderna si fonde con sequenze medievali, mostrando come destino e moralità trascendano le ere. Il suo montaggio, fluido, quasi magico , non segue la logica lineare, bensì quella emotiva, quella del subconscio.

In Corpo e anima, il tempo si fa contemplazione. Enyedi filma i silenzi, lascia che l’intesa tra i personaggi cresca in un ritmo implacabile e uguale. Non c’è fretta, solo la paziente rivelazione dell’intimità.

“Non volevo accelerare, non volevo rallentare, non volevo renderlo drammatico.”

Anche in Storia di mia moglie (2021), manipola la cadenza. Aggiunge capitoli inventati, non presenti nel romanzo, per offrire allo spettatore un momento di calma. Permette al protagonista di riavviare letteralmente la sua percezione, di scegliere un nuovo approccio. Enyedi gioca con chi guarda, lo accompagna per mano e poi lo lascia libero di fare un’esperienza tanto mutevole quanto autentica. Non vuole incastrare, bensì elettrizzare ed incuriosire, come un bambino che non sa cosa aspettarsi. Il suo cinema non è solo narrazione, è un’immersione nel tempo interiore, dove la realtà si piega al sentire. Eppure, per capire davvero l’artista, bisogna scendere più a fondo. Dove la realtà si sbriciola ed il subconscio prende il comando.

Subconscio VS realtà

Ildikó Enyedi non si limita a filmare la realtà; la disfa, la ricompone, la fonde con i fili invisibili del subconscio. Non è una regista, è un’alchimista che trasforma il tangibile in un sogno lucido, dove l’anima trova la sua verità più profonda. Già in Vakond (The Mole), Enyedi svela la sua ossessione: la realtà come una struttura immaginaria, un’immagine proiettata e riprodotta all’infinito. Un agente scopre un mondo dove gli abitanti sono proiezioni registrate. Non è evasione, bensì una sfida diretta alla percezione.

Poi arriva Corpo e anima. Qui, la visione onirica e la realtà sembrano incrociarsi. Endre (Géza Morcsányi) e Mária (Alexandra Borbély), impacciati nel mondo fisico, trovano l’unica vera connessione nei loro sogni condivisi, dove si muovono liberi come cervi nella neve. Si tratta dell’unico luogo dove non si avvertono le loro difficoltà di movimento. Enyedi lo dice chiaro: i sogni, pur personali, permettono di:

“raggiungere tutti gli altri” di “toccare un terreno che si può toccare in pieno giorno molto raramente, che si condivide con tutti”

In Simon the Magician, Enyedi gioca con l’illusione. Il vero mistero è Simon stesso, non i suoi presunti prodigi. La regista lo filma spesso attraverso molteplici lastre creando una riflessione di Parigi diversa da quella che appare, conferendo al film un aspetto doppio e sfuggente. La verità rimane velata, riflessa. Simon non sopravvive, bensì risorge , un atto di fede che solo una ragazza, con la sua purezza di sguardo, riesce a percepire. Il cinema di Enyedi è un invito a guardare oltre la superficie, a fidarsi dell’invisibile.

“Quanto c’è sotto la superficie, quanto abbiamo che non possiamo condividere tra noi”

Si tratta della nostra costante ricerca. Un misticismo terapeutico che ci ricorda: le verità più profonde non si trovano nella logica del giorno, ma nel regno primordiale dei sogni e del subconscio. Lì, tra visioni e verità taciute, la natura diventa complice. Non un fondale, ma un personaggio vivo, pronto a rivelare ciò che teniamo nascosto.

Quando la Natura Svela l’Anima Primordiale

Ildikó Enyedi non usa la natura come semplice sfondo; la trasforma in un linguaggio, in un codice che svela gli istinti più profondi e le verità che la civiltà nasconde. Non è un paesaggio, ma uno specchio dell’anima, spesso brutale, sempre rivelatore.

In Corpo e anima, l’immagine dei due cervi nella neve non è solo fiabesca; è il cuore pulsante del film, un contrasto netto con il sangue del mattatoio. Quei cervi, nel sogno, diventano l’unico luogo dove i protagonisti, Endre e Mária, superano le loro fragilità fisiche, connettendosi in una libertà che la realtà nega. Il film è un ritratto commovente della nostra ricerca di contatto, contro e con la violenza che infliggiamo a noi stessi e agli altri, dove gli animali incarnano sia l’innocenza che la cruda essenza dell’esistenza.

Anche in Il mio XX secolo, gli animali popolano una favola di coincidenze e riferimenti biblici , mentre in Magic Hunter, una Madonna dipinta prende vita per proteggere un coniglio, mescolando sacro, naturale e umano in un unico, audace affresco. Enyedi non ha paura di spingersi nel regno della natura e del sovrannaturale, perché è lì che si rivelano verità che la realtà, spesso, preferisce oscurare.

Il suo prossimo film, Silent Friend, con un albero come figura centrale, promette di continuare questa esplorazione, confermando che per Enyedi, la natura non è mai muta. Rappresenta un urlo, un sussurro, il respiro selvaggio che ci riconnette al nostro io più autentico.

 La Rivoluzione Silenziosa: Donne alla Periferia, il Cuore del Cambiamento

Ildikó Enyedi non è solo una regista; è una voce che risuona dalla “periferia”, un luogo scelto per forgiare un cinema libero, senza compromessi. La sua carriera, indipendente e spesso in lotta per i finanziamenti, non è una debolezza, ma la sua forza più grande. Da lì, osserva e racconta la donna, non come figura marginale, ma come epicentro di una rivoluzione silenziosa.

In Il mio XX secolo, le gemelle Dóra e Lili non sono semplici personaggi; sono archetipi di un secolo che cambia, una avventuriera sessuale, l’altra attivista femminista. Enyedi lo dice chiaro:

“la società ha bisogno di noi”

un’affermazione di potere quanto necessità.

Poi arriva Storia di mia moglie, non un dramma coniugale, ma una parabola sulla fine del patriarcato. Non è una condanna, ma un invito. Un invito agli uomini a unirsi, a costruire un qualcosa che possa essere divertente e appagante per tutti quanti. Enyedi non cerca la guerra dei sessi, ma la loro armonia, pur riconoscendo che possano emergere nuovi comportamenti tossici. Il suo cinema non è didascalico. È una lente che mostra la vulnerabilità maschile, la ricerca di identità. Portando lo spettatore a chiedersi Chi sono io? Cosa significa essere un uomo nella nostra società in un mondo in evoluzione? Enyedi non consola. Fa spazio a una nuova visione, dove la donna, dalla sua posizione “periferica”, guida la trasformazione verso un futuro più equo e condiviso.

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