Quando il sipario si apre su My Fair Lady, non si è semplicemente di fronte a un musical: ci si immerge in un universo teatrale che unisce la leggerezza della commedia con la profondità dei temi sociali. L’opera è ambientata in una Londra edoardiana, raccontata attraverso un’estetica raffinata e una colonna sonora storica. Ma sotto la superficie brillante e melodica si cela una riflessione sorprendentemente acuta sulle convenzioni, sulle gerarchie e sul potere trasformativo del linguaggio.
Diretto da George Cukor, il film è tratto dal musical di Alan Jay Lerner e Frederick Loewe del 1956, ispirato a Pygmalion di George Bernard Shaw.
Pur mantenendo la struttura narrativa dell’opera originale, il musical ne amplia il respiro, trasformandola in una commedia brillante e coinvolgente.
Un racconto ambientato tra i rituali e le convenzioni dell’alta società londinese
Londra, inizio del XX secolo. Durante una piovosa serata a Covent Garden, il professor Henry Higgins (Rex Harrison), noto glottologo e studioso della fonetica inglese, osserva casualmente Eliza Doolittle (Audrey Hepburn), una giovane fioraia dal forte accento cockney. Convinto che il linguaggio sia il vero marcatore della classe sociale, Higgins scommette con il colonnello Pickering, anche lui esperto di linguistica, di riuscire a trasformare Eliza in una dama dell’alta società entro sei mesi, eliminando ogni traccia del suo accento attraverso un rigoroso percorso di formazione linguistica. Motivata dal desiderio di migliorare la propria condizione, Eliza si presenta a casa di Higgins per chiedergli lezioni di dizione e affronta con determinazione l’addestramento, arrivando a padroneggiare un inglese impeccabile. Per mettere alla prova i suoi progressi, Higgins la conduce in ambienti esclusivi come l’Ippodromo di Ascot e un ballo all’ambasciata, dove Eliza conquista l’attenzione e lo stupore dell’alta società.
Tuttavia, il successo dell’esperimento mette in crisi l’identità di Eliza: ciò che all’inizio sembrava un riscatto diventa una trasformazione imposta, spingendola a riflettere sulla propria individualità e sul vero significato del cambiamento.

Il linguaggio come strumento di potere e di appartenenza sociale
My Fair Lady non racconta soltanto un percorso di apprendimento. Al centro dell’opera c’è il linguaggio come strumento di potere e appartenenza sociale. Parlare “bene” diventa un passaporto per l’élite; parlare “male” condanna all’invisibilità. Higgins non vuole solo educare Eliza, ma trasformarla in un’altra persona, convincendo il mondo – e lei stessa – che possa diventare ciò che non era destinata a essere. Ma la narrazione si complica: Eliza non è solo il frutto dell’esperimento, ma una persona in evoluzione che prenderà coscienza di sé proprio attraverso la finzione che le è stata imposta.
Personaggi che sfidano gli stereotipi
A rendere eterno questo film è anche la complessità dei suoi personaggi. Eliza non è una Cenerentola in attesa del riscatto amoroso, ma una donna che lotta con la propria identità. La sua trasformazione linguistica diventa una crisi esistenziale: “Chi sono, se non posso più tornare indietro, ma non so nemmeno dove sto andando?” è il sottotesto delle sue azioni. La scena della festa all’ambasciata non è solo il coronamento di un successo formale, ma un momento di profonda alienazione.
Higgins, d’altra parte, non è un mentore illuminato. È un uomo che vede le persone come oggetti di studio, e che solo alla fine, in modo goffo e imperfetto, comincia a intuire il valore umano di Eliza. Non cambia davvero, o almeno non completamente, ma viene costretto a guardarsi allo specchio. È proprio questa ambiguità a rendere il loro rapporto così intrigante: non una storia d’amore classica, ma un confronto irrisolto tra due visioni del mondo.
Una colonna sonora senza tempo
L’immortalità di My Fair Lady è dovuta anche alla musica di Frederick Loewe, che riesce a dar voce non solo ai sentimenti dei personaggi, ma alle loro contraddizioni interiori. Canzoni come I could have danced all night o Wouldn’t it be loverly? rivelano la gioia e la frustrazione di Eliza, mentre Why can’t the English? o I’m an ordinary man svelano il cinismo e l’egocentrismo di Higgins.
La musica segue l’evoluzione emotiva dei personaggi, diventando parte integrante della narrazione. Ogni brano è pensato per portare avanti la storia, o per scardinare le sue apparenze. Eppure, anche nei momenti più leggeri, resta un senso di intelligenza compositiva rara nei musical dell’epoca.
La fotografia
La fotografia, curata con estrema raffinatezza, gioca un ruolo fondamentale nel definire l’identità visiva del film. Attraverso una sapiente gestione della luce e una palette cromatica ricercata, restituisce con precisione la Londra edoardiana, valorizzando tanto la ricchezza scenografica quanto la profondità emotiva dei personaggi. Ogni inquadratura contribuisce a costruire un immaginario coerente, elegante e narrativamente efficace.

La scenografia, mai puramente decorativa
La scenografia è uno degli elementi che più contribuiscono al fascino duraturo del film. Elegante e ricchissima di dettagli, ricostruisce con grande accuratezza l’atmosfera dell’epoca, passando con naturalezza dagli angoli più popolari di Covent Garden agli ambienti sofisticati dell’alta società. Ogni ambientazione è studiata per esaltare il contrasto tra i mondi che Eliza attraversa nel proprio percorso di trasformazione.
Particolarmente iconica è la scena dell’Ippodromo di Ascot, dove la composizione visiva rigorosa e il bianco e nero dei costumi creano un effetto teatrale di grande impatto. La scenografia, premiata con l’Oscar, non è mai puramente decorativa: dialoga con la narrazione e ne amplifica i temi, diventando parte integrante del racconto.
Un’opera di grande valore tra estetica e riflessione sociale
A livello visivo, My Fair Lady ha contribuito a definire l’estetica del musical classico.
Ciò che rende duratura l’opera non è solo la bellezza delle sue immagini, quanto l’armonia con cui tutto – dalle scenografie alle musiche, dai dialoghi alle pause – contribuisce a costruire un universo coerente, al tempo stesso realistico e fiabesco.
My Fair Lady non è solo un classico, ma un’opera necessaria. Perché riesce, sotto le vesti scintillanti di un musical, a parlare con leggerezza di questioni fondamentali: chi siamo? Siamo ciò che mostriamo, ciò che diciamo, o ciò che ci riconoscono di essere? E quanto potere ha il linguaggio nel determinare il nostro posto nel mondo?
Eliza non torna con orgoglio al punto di partenza, né accetta passivamente la nuova identità che le è stata imposta. Preferisce invece restare sospesa tra due dimensioni differenti, consapevole del proprio valore e della propria complessità. Proprio questa ambiguità conferisce all’opera un forte valore morale.
Un’attrice protagonista dal fascino intramontabile
Audrey Hepburn, interpretando Eliza Doolittle, ha dato vita a un personaggio dal fascino senza tempo, in cui eleganza, delicatezza e determinazione si fondono in una complessità emotiva sorprendente.
La sua abilità nel rappresentare la metamorfosi di Eliza — da fioraia modesta a donna sicura di sé e consapevole — ha donato al film una profondità che va oltre il tradizionale musical. Hepburn ha saputo trasmettere al ruolo una naturalezza straordinaria, valorizzando tanto la vulnerabilità quanto la resilienza del personaggio, rendendolo così universale e attuale.
L’attualità di My Fair Lady
Nel suo equilibrio perfetto tra forma e contenuto, My Fair Lady continua a stupire per la sua straordinaria incisività.
È un’opera che conquista per le sue musiche incantevoli, per la sua ironia brillante, per la qualità della scrittura e della costruzione drammaturgica. Ma è anche un racconto che pone domande e invita a guardare oltre le apparenze.
Quello che resta, alla fine, è una voce che ha trovato la propria forza e il proprio spazio.
In un mondo che ancora fatica a riconoscere il valore dell’autenticità, My Fair Lady continua a parlarci con sorprendente lucidità e attualità.