La teoria del tutto è un film che inizia con una corsa. Stephen Hawking e un amico pedalano per le vie di Cambridge, come se non ci fosse alcun ostacolo a rallentarli. Ma in realtà, il tempo ha già cominciato la sua discesa. La regia, con mano discreta e affilata, dissemina fin dall’inizio piccoli indizi: un bicchiere che trema, una mano che fatica ad aprirsi e poi Stephen, che mentre sembra avere l’idea, inciampa e sbatte la testa. È l’inizio della fine, ma anche l’inizio di una nuova teoria, una nuova vita, un nuovo modo di pensare il tempo — e l’amore.
James Marsh costruisce il film come se stesse seguendo la stessa logica delle teorie di Hawking: un’espansione che culmina in un collasso, un’apoteosi che implode in una singolarità emotiva. La struttura narrativa si stringe via via, concentrandosi sui dettagli minimi — quelli che oggi tendiamo a skippare — ma che sono, in realtà, il cuore pulsante della storia. Il ballo tra Stephen e Jane, le mani che non si aprono, la rincorsa al treno, dove è già ben evidente la sua difficoltà nei movimenti, l’immagine di lui nella vasca che tenta, da solo, di muovere le dita: sono tutti atti minuscoli che diventano cosmici nella loro portata simbolica.
L’incontro con Jane è una zona luminosa, una pausa di luce nell’oscurità progressiva. La loro relazione nasce in un tempo sospeso, nel momento esatto in cui Stephen scopre di avere una malattia degenerativa: la SLA. Ma Jane non si ferma, accetta il peso con una grazia che non è martirio, bensì scelta consapevole. E tra le scene più toccanti del film è proprio quella in cui Stephen riconosce la propria fragilità e dice a Jane che può andarsene. In quel gesto c’è tutta la saggezza di chi ama davvero.
Il film prosegue, e con la malattia avanzano anche la complessità e la finezza del linguaggio cinematografico. Quando Stephen perde l’uso della parola, la comunicazione avviene tramite una tavola alfabetica divisa per colori. Jane, nel tentativo di aiutarlo, elenca i gruppi, ma dimentica — in buona fede — proprio il colore giallo. E con esso, la lettera “T”, forse necessaria per dire ‘thanks’. È un dettaglio piccolissimo, eppure capace di raccontare tutto: la frustrazione di chi vuole parlare e non può, il dolore di chi cerca di aiutare e sbaglia. Poco dopo, sarà Elaine, l’assistente, a usare la tavola in modo corretto: la “T” c’è, e Stephen riesce a chiedere un tè. La comunicazione torna, e con essa, un’intesa nuova, immediata.
Elaine entra nella sua vita come una presenza leggera ma decisiva. Tra i due nasce una complicità fatta di sguardi, di ironia, e anche di riviste pornografiche. Già nella prima parte del film, Stephen racconta di una scommessa con il fisico Kip Thorne, persa a causa di Cygnus X-1, che si rivelò un buco nero: la penitenza fu un abbonamento a Penthouse. La stessa rivista riappare nello studio, come un piccolo ritorno narrativo dal sapore ambiguo. Un oggetto che è al tempo stesso ironico, realistico, umano. Un uomo può essere un genio e leggere Penthouse, può non credere in Dio ma cercare un segno.
Durante un convegno, a Stephen viene chiesto quale sia la sua spinta, se non crede in una forza superiore. Il tempo si ferma. Una penna cade, lui immagina di alzarsi, di raccoglierla e restituirla. Quel momento immaginario è forse il momento che più avvicina Stephen a Dio, ma la risposta non cambia: “Finché c’è vita, c’è speranza.” È il punto di rottura, e insieme di ripartenza. In quella frase si concentra il senso ultimo del film: non il trionfo della scienza sulla malattia, ma della vita sul tempo.
Anche la voce meccanica, quella del sintetizzatore che sostituirà la sua, diventa in qualche modo simbolica: è fredda, robotica, ma inizia a esprimere un pensiero sempre più personale, brillante, rivoluzionario. In fondo, lui stesso è un paradosso vivente, un punto in cui il tempo si espande (la sua mente) e si contrae (il suo corpo). È il suo corpo a fermarsi, ma non il suo universo interiore.
Il film si chiude con una scena dolce e struggente: Stephen, ormai insignito del cavalierato, guarda i suoi figli accanto a Jane e le sussurra: “Guarda cosa abbiamo creato.” È una frase che dice tutto: amore, fatica, perdita, creazione. Il tempo li ha trasformati, forse separati, ma non ha cancellato ciò che hanno costruito insieme.