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“E se il tempo fosse la malattia?”: una rivisitazione lucida e amorevole de ‘Il cielo sopra Berlino’ di Wim Wenders
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2 mesi agoon
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Greta Wieth“Il tempo guarirà tutto, ma se il tempo fosse la malattia?”
Questo paradosso è il cuore pulsante de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, un film che non ha perso nulla della sua forza delicata e penetrante nei decenni trascorsi dal suo debutto nel 1987. È un film che rifiuta le consolazioni nette di una conclusione narrativa o la facile seduzione della pura fantasia. Al contrario, gli angeli di Wenders vagano per una Berlino ancora segnata dalla divisione e dalla guerra, ascoltando le confessioni inespresse dei vivi, assistendo silenziosamente alle fratture di una città e alle lunghe ombre proiettate dalla storia.
Guardare Il cielo sopra Berlino ora significa sentire il tempo accumularsi intorno a sé, guarendo e corrodendo allo stesso tempo. Se il tempo è sia la cura che la malattia, allora gli angeli di Wenders ne sono i silenziosi archivisti, che registrano ogni fugace battito cardiaco, ogni barlume di disperazione o meraviglia privata, con la devozione di una specie che può vedere tutto ma afferrare così poco.
Il film si chiede: come conviviamo con il nostro passato? Come viviamo nell’infinito presente? E forse, cosa più urgente, come continuiamo a sperare quando la memoria stessa diventa una ferita che non si rimargina?
Il viaggio degli angeli
Nella sua forma più semplice, Il cielo sopra Berlino segue due angeli, Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander), che vagano invisibili per una Berlino ancora divisa, ascoltando i pensieri e la silenziosa disperazione dei suoi abitanti. Damiel, stanco della gelida distanza dell’eternità, rimane affascinato dall’esistenza mortale e si innamora di Marion (Solveig Dommartin), una trapezista solitaria alla ricerca di un significato nella sua vita alla deriva.
Desiderando assaporare i piaceri fugaci del tatto, del gusto e dell’amore, Damiel sceglie di rinunciare alla sua immortalità, immergendosi nel caos e nella bellezza dell’esperienza umana: un atto di fede che trasforma il suo mondo e quello di Marion in piccoli e luminosi modi.
La filosofia dell’angelo di Wenders
Wim Wenders ha descritto Il cielo sopra Berlino non tanto come una storia quanto come un atto poetico di testimonianza, un tentativo di rendere visibile il silenzio invisibile che si cela dietro la routine umana. Concepiva gli angeli non come sentinelle religiose, ma come metafore del cinema stesso: esseri che osservano, ascoltano, raccolgono frammenti delle vite altrui. In alcune interviste, Wenders ha affermato che gli angeli nascevano dalla sua frustrazione per i limiti del mezzo: voleva realizzare un film che potesse occuparsi di tutto contemporaneamente, come fa una poesia, come fa la memoria.
Berlino nel 1987 era ancora una città divisa: un palinsesto di devastazioni e caute ricostruzioni, di spazi infestati dove la città vecchia si intravedeva attraverso muri di cemento e terreni abbandonati. Per Wenders, Berlino divenne un palcoscenico per questi osservatori spettrali, una città che incarnava la contraddittoria fame di connessione dell’umanità e la sua sconfinata solitudine. Gli angeli – e la macchina da presa – scivolano tra biblioteche, fermate degli autobus, cantieri, letti di amanti, cogliendo pensieri sparsi e preghiere segrete. Ci ricordano che persino i nostri momenti più banali sono sfiorati dal divino, anche solo nell’atto di essere visti.
Le aureole fatte carne: Ganz, Sander e le ali iconiche
È impossibile parlare di Il cielo sopra Berlino senza elogiare le interpretazioni struggenti e dignitose dei suoi protagonisti. Bruno Ganz, nei panni di Damiel, offre un’interpretazione così tenera che sembra di respirare. Il suo angelo è stanco dell’eternità ma con gli occhi spalancati dal desiderio, affascinato dalla condizione mortale che non può toccare – il sapore di una mela, il calore del caffè, il peso dell’amore. Accanto a lui, Cassiel, interpretato da Otto Sander, rimane l’osservatore più stoico, oppresso da una compassione che non può intervenire.
E poi c’è l’immagine – ormai iconica – di Ganz e Sander appollaiati sulle rovine di Berlino, con pesanti ali di pietra sulle spalle come vecchi rimpianti. Queste ali non sono i cliché piumati di un fantasy a buon mercato; sono monumentali, scultoree, promemoria del fatto che testimoniare significa portare un peso. Il luminoso bianco e nero del direttore della fotografia Henri Alekan incornicia questi momenti come affreschi viventi: statue che si muovono, che bramano di scendere dai piedistalli dell’eternità per entrare nella gioia caotica della carne.
È appropriato che quando Damiel finalmente cade – scegliendo la mortalità per amore – il mondo esploda a colori. Il sacrificio dell’angelo non è un mero gesto romantico; è un atto di fede che la brevità della vita vale più dell’infinita pazienza dell’eterno osservatore. Il tempo può essere la malattia, sembra dire Wenders, ma l’amore è il sintomo che rende il dolore sopportabile – e forse questo basta.
I fantasmi di Berlino e la promessa di speranza
Affacciato sulle macerie e sul silenzio inquieto di una città divisa, Il cielo sopra Berlino diventa un’elegia per ciò che Berlino era e una fragile benedizione per ciò che potrebbe diventare. Le ferite del passato – la Seconda Guerra Mondiale, il Muro che ha diviso famiglie e menti – aleggiano in ogni inquadratura. Eppure il film non sprofonda nella disperazione. I suoi angeli ascoltano non solo le confessioni di dolore, ma anche sogni a occhi aperti sparsi, frammenti di poesia, domande infantili.
In questa deriva di storia spezzata, Wenders trova una promessa nascosta: essere umani significa essere incompiuti, rimodellando continuamente le rovine di ieri nell’improbabile forma di domani. “E se il tempo fosse la malattia?”, si chiede il film. Forse sì, ma se il tempo è la ferita, allora la memoria è il punto che ci lega gli uni agli altri. In questi frammenti di pensieri sussurrati, Berlino si rivela non come una città schiacciata dal suo passato, ma come un organismo vivente di speranze inespresse, dove ogni battito del cuore umano è una silenziosa ribellione contro l’oblio.
Un film da guardare e da cui essere guardati
Vedere Il cielo sopra Berlino oggi significa ricordare che il cinema può ancora aspirare a essere un atto morale, un gesto di empatia radicale. È un’opera che non si sforza di intrattenere, ma di ricordarci che le nostre vite, nonostante tutte le loro fugaci tragedie e tenerezze, contano. Che essere visti – visti veramente – è il modo più vicino per arrivare alla grazia.
Il tempo può essere la malattia. Ma nella Berlino di Wenders, sperare – mantenere in vita i nostri angeli privati – significa avere fiducia che persino alla malattia del tempo si possa sopravvivere, finché ci teniamo stretti e osiamo, ancora e ancora, immaginare cosa verrà dopo.