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Tre film se ami Tarantino

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quentin tarantino

Radici pulp, violenza pop e cinema di culto dietro la cinefilia sfrenata di Quentin Tarantino

Quentin Tarantino non è solo un regista: è un archivista selvaggio, un collezionista ossessivo di cinema perduto, un DJ del montaggio che trasforma B-movie dimenticati in esperienze pop di massa. I suoi film sono collage selvaggi in cui convivono spaghetti western, exploitation, noir anni ’70 e kung-fu taiwanese.
Ma per capire davvero la sua poetica, bisogna risalire alle fonti. Ecco tre film che non solo ha amato, ma che hanno plasmato il suo stile in modo profondo e riconoscibile.

Quentin Tarantino diventa scrittore


Quentin Tarantino

1. Faster, Pussycat! Kill! Kill!

(Russ Meyer, 1965)

Un deserto. Tre donne. Una Mustang nera. E tanta, tantissima furia.
Russ Meyer, regista culto dell’erotismo pulp americano, firma con Faster, Pussycat! Kill! Kill! il suo capolavoro assoluto. Il film è un’esplosione di energia femminile brutale, sarcastica, over the top. Al centro c’è Tura Satana, pantera metropolitana armata di karate e smorfie da noir, icona totale di forza e perversione.

Tarantino lo ha definito “uno dei migliori film americani mai realizzati”. E in effetti Death Proof nasce da qui: donne forti che guidano veloce, sfidano la morte e parlano con la stessa ironia tagliente dei gangster.
L’idea stessa che una donna possa essere il villain e l’eroe nello stesso corpo è un’idea tarantiniana prima ancora che tarantiniana.

“Faster, Pussycat!” non è solo cult: è un manifesto. Il proto-femminismo di Meyer esplode in una danza di violenza e libertà, anticipando decenni di girl power cinematografico.


2. Cani arrabbiati

(Mario Bava, 1974)

È il film “maledetto” di Mario Bava, girato di corsa, finito tardi, distribuito peggio. Ma in quegli 87 minuti si nasconde qualcosa di unico: un noir feroce, minimalista, che anticipa Reservoir Dogs in modo quasi profetico.

La trama è semplice: una rapina, una fuga, una presa d’ostaggi. Tutto si svolge quasi interamente dentro un’auto, con i personaggi stretti, sudati, armati e pronti a esplodere. Niente glamour, niente redenzione. Solo tensione.

Tarantino riprende moltissimo da qui: il dialogo come arma, l’uso dello spazio chiuso, l’idea che la vera violenza sia psicologica, prima ancora che fisica.
E come Le Iene, anche Cani arrabbiati mostra tutto tranne la rapina, concentrandosi sull’implosione morale dei personaggi.

“Bava firma un noir crudele, senza vie d’uscita, in cui ogni parola è una minaccia. Tarantino ci ha costruito sopra metà della sua carriera.”


3. Django

(Sergio Corbucci, 1966)

Non è Sergio Leone, ma è ancora più sporco. Più politico. Più nichilista.
Il Django di Sergio Corbucci è un western che spara su tutto: religione, potere, ideologie. Un antieroe trascina una bara nel fango. Dentro c’è una mitragliatrice. Fuori, solo morte.

Tarantino non ha mai nascosto il suo amore per Corbucci, “il più violento dei registi italiani”.
In Django Unchained, il debito diventa dichiarato, ma il vero omaggio è lo spirito: la volontà di reinventare il western come teatro della vendetta e della rivolta.
Il cameo di Franco Nero, Django originale, è la firma finale su una lettera d’amore cinefila.

Corbucci usa il sangue come denuncia. Tarantino come spettacolo. Ma l’estetica – e l’etica – della violenza parte da lì.


Conclusione: Tarantino come filtro pop del cinema di culto

Questi film non sono semplici ispirazioni: sono mattoni fondamentali della grammatica tarantiniana.
Chi ama Tarantino dovrebbe vederli non per trovare le citazioni (ce ne sono), ma per capire da dove nasce il suo sguardo: un cinema che ama l’eccesso, il margine, l’ironia, la trasgressione.

Tarantino è un regista remix: prende i generi dimenticati, li distilla, e li restituisce in forma pop.
Ma ogni remix ha le sue tracce originali. E queste tre sono essenziali.