Il Cinema Ritrovato
‘Cinque pezzi facili’, le dissonanze dell’americano errante
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12 ore agoon
È sempre tempo di New Hollywood, soprattutto alla XXXIX edizione del Festival del Cinema Ritrovato a Bologna, che omaggia quel crocevia imprescindibile di storia del cinema statunitense sia con la proiezione spettacolare in 70 mm di Incontri ravvicinanti del terzo tipo di Steven Spielberg sotto le stelle di Piazza Maggiore, sia nella medesima suggestiva location con la versione restaurata di Cinque pezzi facili (Five Easy Pieces, 1970), nella variazione plumbea e intimistica di quella nouvelle vague oltreoceano, con un film epocale ma meno barocco e magniloquente di altri, firmato da un autore più appartato e alternativo rispetto agli altisonanti nomi di Scorsese, Coppola, De Palma, Cimino, Pollack, Schrader e ovviamente Spielberg stesso.
Eppure Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, con Jack Nicholson e Karen Black, fotografa, come l’istantanea di un grido di rabbia, un’inquietudine alienante, un ineffabile scoramento nei confronti del reale, in grado di dialogare imperituro dopo cinquantacinque anni dalla sua uscita, nella compattezza di un cinema che ritrae l’irrisolutezza congenita nell’umano e la precarietà dell’esserci nel mondo, con una modernità di linguaggio (di retaggio europeo) che devia, frantuma, scompone: una nervosa essenzialità poetica, ondivaga, straziante e lucidissima.
Born in the USA: contraddizioni di un cittadino non privilegiato
L’eterno ritorno all’uguale, ma con una gravezza interiore più insidiosa; un nostos imperfetto e inconcludente, nel rilancio delle proprie insicurezze e paure; un percorso di de-formazione che suggella uno stile di vita, ma in un nulla senza più strade da percorrere. Il pianista dotato di una famiglia benestante e colta dello stato di Washington si ritorce contro le proprie opportunità e i propri cari per trasferirsi in California; non è il coronamento dell’American Dream, la costa occidentale non schiude percorsi di carriera, né il protagonista Bobby (nomen omen), interpretato da Jack Nicholson, rivendica per sé il migliore dei mondi possibili nel suo personale West.
Assunto come operaio in un giacimento petrolifero, rivendica alla sua educazione perbenista una presunta purezza errabonda, tra Rayette (Karen Black), una ragazza spontanea e scioccamente melodrammatica, e un amico di bevute, giocando a bowling o flirtando con altre donne: un Eden autoreferenziale più nichilista che socialista, affrancato dal consumismo ma opaco di identità personale, come sanno vivere molti outsider partoriti dalla New Hollywood.
Solitudine in minore per un musicista manovale
Sul solco di quella tendenza filmica, non ci sono apologhi esemplari, morali da impartire, messaggi ideologici da conclamare; Bob Rafelson, alfiere hippie di una stagione irripetibile (già produttore di Easy Rider), pur nello stridore di un personaggio egoista e presuntuoso, ci inoltra nello spirito di inadeguatezza e ridefinizione senza risposte della controcultura giovanile con uno sguardo corrosivo ma non anarchico, di universale ampiezza, come i campi lunghi nel cuore degli Stati Uniti, fotografati con espressiva naturalezza e senza iconografie dal magistrale László Kovács, qui all’ultimo film di esclusiva operatività alla macchina da presa.
Perché da accennato romanzo sociale Cinque pezzi facili si declina in un road movie autunnale (quando la salute del padre, afasico, peggiora e Bobby è costretto a fargli visita), eludendo il topos catartico del ritorno dell’eroe: come tante pellicole statunitensi, a partire dagli anni Settanta, tra lo stato di cultura e quello di natura si frappone una frizione perenne e l’individuo si ritrova a preferire la sua condizione brada, in una negazione del mito autoctono dell’happy ending at home, con il suo archetipo ne Il mago di Oz.
Le identità smarrite di un antieroismo senza tempo
La permanenza nella borghese tenuta di famiglia, circoscritta su un’isola, è l’ennesimo contraccolpo di rigidi convenevoli e vincolante grigiore, dove l’incomunicabilità con il padre malato, nei dintorni di Antonioni, è metafora di uno stallo generazionale all’ombra oscura del capitalismo; la ripartenza, a mani vuote, prefigura la labile esattezza del precedente cambiamento, ma Rafelson rilancia la partita del suo instabile protagonista, ancora una volta come figura dell’assenza e dell’abbandono, ma ancora una volta, nonostante tutto, nell’integrità di un’onorevole coerenza.
Puntellato da sequenze memorabili di irruente e nero umorismo firmato Nicholson (l’improvvisazione al piano in mezzo al traffico, la gag del pane tostato al diner), veri correlativi oggettivi filmici del personaggio, e da una colonna musicale sapientemente nostalgica, Cinque pezzi facili, oltre a cristallizzarsi come prodotto culturale di quella nuova estetica linguistica di sensibilità collettiva (come lo sarà Il re dei giardini di Marvin, sempre con Nicholson), rivisto oggi si consegna con l’autenticità più introspettiva e rassegnata di anelito atemporale all’emancipazione dagli schemi, alla fuga sconfinata e catartica senza un baricentro. Una sonata jazz per eterni principianti verso la vita, come direbbe Raymond Carver e come allude il titolo, un libro di esercitazioni al piano per discenti alle prime armi.
Restaurato in 4K nel 2025 da Sony Pictures Entertainment presso i laboratori Cineric e Motion Picture Imaging, a partire dal negativo scena originale 35mm e dai master di separazione YCM 35mm. Restauro sonoro effettuato presso il laboratorio Deluxe Audio, a partire dai master suono mono.