Il Cinema Ritrovato

‘L’orologiaio di Saint-Paul’, l’esordio di Bertrand Tavernier nel segno di Simenon

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Molteplici i film tratti da Georges Simenon ed eterogenea la galleria di registi che si sono cimentati in impervie trasposizioni dei suoi “romanzi duri” e non: da Henri Decoin a Béla Tarr, da Claude Chabrol a Claude Autant-Lara, da Marcel Carné a Mathieu Almaric, fino a a Benoît Jacquot, recentemente, con La morte di Belle. La Cineteca di Bologna, che ospita fino all’8 febbraio 2026 presso la Galleria Modernissimo la mostra Georges Simenon. Otto viaggi di un romanziere, non poteva affinare meglio l’approfondimento del genio del padre di Maigret, proponendo al Cinema Ritrovato 2025 in versione restaurata L’orologiaio di Saint-Paul (1974) di Bertrand Tavernier.

Un esordio abbagliante per solida forma filmica e maturità di soggetto, che in questa XXXIX edizione del Festival si affianca ad altre illustri prime volte, tra cui quelle di François Truffaut e Jean Seberg, e che in sala viene introdotto nientemeno che da Thierry Frémaux, direttore del Festival di Cannes e dell’Institut Lumière di Lione.

Tavernier tra i rintocchi del rimosso

Il futuro regista di La vita e niente altro e Round Midnight si affaccia al lungometraggio approcciandosi a L’orologiaio di Everton (1954), che Simenon ambientò negli Stati Uniti e che Tavernier invece trasferisce a Lione, la sua città natale, nel quartiere di Saint-Paul che diventa il microcosmo di un’umanità semplice, incastonata in riti sociali conviviali e in una scansione mite e abitudinaria dell’esistenza, ma in sottotraccia increspata da silenziose frizioni generazionali, incomprensioni interiori, istanze giovanili di insofferenza, nei rigurgiti irrisolti delle trasformazioni epocali degli anni Sessanta.

Agli affreschi provinciali di ipocrisia piccolo-borghese e alla banale malvagità della gente indagati dall’autore belga con le sue cadenze inesorabili, Tavernier non oppone ma interpone un’accezione politica: l’incomunicabilità tra padri e figli, il silenzio di traumi storici rimossi, la cecità delle istituzioni. Trovando nella corporeità di millimetrica intensità di un eccezionale Philippe Noiret, in un ruolo tragicamente ordinario, il cantore di una prosa intessuta di movimenti di macchina ‘morali’  e giochi di sguardi di intimistica spazialità.

La sindrome di Telemaco: il racconto di un duplice abbandono

A Lione l’orologiaio Michel Descombes conduce una vita quieta, bonaria, imperturbabile, ben accettato nella piccola comunità locale. Un giorno, però, viene informato dalla polizia che il figlio Bernard è in fuga con una ragazza, Liliane, dopo aver commesso un delitto alla presenza di testimoni; la vittima è una guardia della fabbrica dove lavora la fidanzata, che si scopre essere un ripugnante fascista. La notizia di cronaca viene diffusa dai media, che lo interpretano come un omicidio politico, sulla scia delle elezioni vinte dalla destra.

Arrestato con la sua complice, il giovane rifiuterà di vedere il padre, che, pur avendolo accudito dopo l’abbandono della madre, non sa niente di lui. Fino a quando Michel, pur collaborando con gli inquirenti, sosterrà la tesi di Bernard, contrario a un declassamento del misfatto a “delitto passionale” per presunte attenzioni moleste verso Liliane: una comunanza segretamente empatica che è anche una scelta civica giusta e consapevole verso il futuro di tutti, anche del figlio che la ragazza porta in grembo.

Un ingranaggio alla volta

L’esordio di Tavernier, che pregò Simenon per la concessione dei diritti d’autore senza eccessive complicazioni economiche, intercetta il convulso clima della prima metà degli anni Settanta, nei postumi del Sessantotto, che raccolse vanamente i frammenti sparsi di una rivoluzione, di controtendenze e dei successivi assestamenti. Non casualmente Michel lavora come orologiaio, aggrappato alla fede illusoria, da reduce di guerra (un’esperienza mai condivisa con il figlio), che il reale si possa sanare riparando i suoi ingranaggi; o ricomponendo un puzzle, uno dei giochi d’infanzia impartiti al piccolo Bernard.

Un film politico di ravvedimento ed espiazione psicologica senza le forzature del percorso di maturazione, senza scorciatoie introspettive, che esige il rispetto delle reticenze personali e dove il riflesso della verità scorre negli sguardi rannuvolati e arresi di Philip Noiret, nella sua andatura indolente ma non sconfitta, nella forza morale di un personaggio sopraffatto da congegni dell’esistenza, informe ma lucidissimo che, a differenza di Jack Lemmon in Missing (1982), risveglia la genitorialità tramite la consapevolezza politica e non viceversa.

In una fotografia crepuscolare che elude il lirismo (e che il restauro fa ancor più rifulgere), Tavernier lima tra sequenze-madri (come il rogo visto da un treno in corsa, nei titoli di testa), dettagli di suggestiva frugalità (i piatti consumati a tavola) e after ending toccanti (la dedica a Jacques Prévert) il suo apologo sull’amore genitoriale come atto di giustizia sociale e presa di posizione nella civitas. E, come tutti i grandi registi, bilanciando il suo sofferto ma non disperato racconto, che non disdegna la catarsi, con un’ironia leggera (incarnata soprattutto dal commissario di polizia): una luce tenue di umane possibilità contro le minacciose derive ideologiche che, denunciate in L’orologiaio di Saint-Paul nel 1974, non risuonano oggi come un’eco a noi lontana.

 

 

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