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‘Io, Edward Bloom’: alla fine diventeremo tutti storie
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8 ore agoon
Quella sera a Roma, in un cinema di periferia, avvertivo una strana ansia, probabilmente per una dose eccessiva di caffeina che circolava nel mio corpo. Oppure, si trattava di una sorta di premonizione, di quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Sprofondai nella poltrona rossa. Niente pop-corn; l’ho detto, avevo bevuto troppo caffè.
Non sapevo nulla del film che stavo per vedere. Di solito, amo l’effetto sorpresa. Il titolo, Big Fish, non mi diceva molto.
Tim Burton era un regista che tutti i teenager degli anni ’90 avevano sentito nominare almeno una volta. Edward Mani di Forbice, un Johnny Depp stralunato e pallido con delle forbici a posto delle mani, andava in onda ogni Natale.
E i due Batman, il primo con lo stravagante Joker di Jack Nicholson e il sequel con l’ipnotica Michelle Pfeiffer nei panni di Catwoman avevano sbancato al botteghino. Erano dei cult, entrati prepotentemente nell’immaginario collettivo con quella vena dark e romantica, pop e gotica.
Come afferma un autore di cui ora mi sfugge il nome “il cinema ha più a che fare con il credere che con il vedere”. E Big Fish (tratto dal romanzo di Daniel Wallace) sin dalle primissime scene, coniugava bene le due cose, il “credere” e il “vedere”. Metteva in atto quell’artificio miracoloso della “sospensione dell’incredulità”, quel patto segreto tra spettatore e autore e, al contempo, ci cullava nella gioia della visione.
Mi identificai immediatamente in Edward Bloom. Lui, come me, trasfigura il reale. Man man mano che le immagini si susseguivano sullo schermo, mi rendevo conto di quanto io e lui ci assomigliassimo.
«Tenuto in un piccolo vaso il pesce rosso rimarrà piccolo, in uno spazio maggiore esso raddoppia, triplica o quadruplica la sua grandezza»
Ecco, io mi sono sempre sentita un pesce rosso, uno di quei pesci pagliaccio, come Nemo, per intenderci. E il mondo che abitavo mi sembrava una boccia troppo piccola per contenere i miei sogni, le mie ambizioni, la mia immaginazione. Crescendo, le cose non sono cambiate di molto. Ho la perenne nostalgia di un altrove che, forse, non esiste.
Io, come Edward Bloom, mi raccontavo favole. Lo faccio ancora. Forse per proteggermi, per preservare la mia bolla che, al contrario della boccia, è leggera, si libra in aria. Perché non si può reggere troppa realtà. Credo che l’esigenza di raccontare e raccontarsi delle storie nasca dal bisogno, radicato, di creare un senso ulteriore e permanente. Di trovare una corrispondenza tra il proprio mondo interiore e quello esterno.
Edward Bloom riesce a trasporre la realtà su un piano immaginativo e immaginifico. Così apre la sua vita a un universo di possibilità e la sua esistenza assume il senso di cui parlavo prima. Si eleva fino a diventare immortale, nel fluire eterno della narrazione.
«Spectre è davvero grande, l’erba così verde, il cielo così blu»
Quando apparve sullo schermo la città di Spectre, fu come essere catapultata in un luogo della mia immaginazione. Un po’ come quando Alice cade nella tana del Bianconiglio.
Avvenne un altro di quei miracoli che, non di rado, il cinema compie: un riconoscimento, un’epifania.
La città di Spectre, in cui i suoi abitanti vivono senza scarpe, tutte appese ad un filo come panni stesi al sole ad asciugare, mi trasmetteva un senso di libertà assoluta e, al contempo, di calore e familiarità. Quello era il regno di Edward Bloom.
Per molti, per i “babbani”, come direbbe la Rowling, la fantasia è pericolosa. Ricordo ancora i miei insegnanti che guardavano con sospetto quella bambina che fantasticava cose impossibili. Del resto, il primo libro che ho letto in vita mia è stato Alice in Wonderland di Lewis Carrol e consideravo Il Mago di Oz di Frank Baum la mia Bibbia. Dorothy Gale è stata, per gran parte della mia infanzia, la mia amica immaginaria.
«A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale»
Tutta l’emozione accumulatasi durante la visione del film esplose in un pianto nella scena finale. Il funerale di Edward Bloom. Lui, circondato da tutti i personaggi che avevano popolato le sue storie. Che erano persone. Magari non così alti da essere giganti, o surreali da essere freak, ma speciali nella loro unicità.
Edward suggella la sua incredibile esistenza diventando egli stesso il grande pesce che aveva inseguito per tutta la vita. Diventando la storia che aveva raccontato per tutta la vita.
Ci sono libri, o film, che ti cambiano. O, meglio, rivelano qualcosa che è già lì, nascosto in qualche angolo remoto della coscienza. E non è un’iperbole alla Edward Bloom, è la sacrosanta verità. Quel film, per me, ha fatto la differenza. Forse perché ha intercettato una parte profonda di me, in un modo che non saprei nemmeno descrivere a parole.
Ero alla fine del mio percorso accademico e decisi che avrei intrapreso la strada della critica cinematografica. O almeno ci avrei provato. Sentivo crescere in me l’urgenza di conoscere meglio quel regista, quell’uomo, Tim Burton, con cui si era instaurata naturalmente una connessione. Certo, inseguire un sogno è come cercare di afferrare la coda di un arcobaleno.
Inutile negarlo, la figura solitaria e un po’ arcigna del critico, con taccuino alla mano, che scrive appunti al buio di una sala, è una fantasia del secolo scorso. Mentirei se dicessi che ho realizzato tutti i miei sogni e che tutti i miei sforzi e il mio lavoro sono stati adeguatamente ripagati. Ma, nel tempo, ho scoperto cosa fosse veramente il cinema, almeno per me. E ho capito di non poterne fare a meno.
Il cinema è emozione, stupore, è terapia. È specchio e sogno, coltello e carezza. È incontro. In altre parole: è il mondo attorno a cui gravitava Edward Bloom.
Al buio di una sala, il pesce rosso esce dalla sua boccia e lo spazio si espande all’infinito. Diventa un Big Fish. O forse, assume solo la sua grandezza naturale.
Ogni volta che sprofondo nella poltrona di un cinema e le luci si spengono, mi sento al sicuro. Perché so che quella luce proiettata sullo schermo mi condurrà altrove, fuori dalla boccia. A casa.