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‘Mani Nude’ conversazione con Mauro Mancini

Ispirandosi all’opera di Bunker ‘Mani Nude’ racconta il tentativo di riscatto di un mondo condannato dalle proprie colpe

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Presentato in anteprima al 19ª Festa del Cinema di Roma Mani Nude di Mauro Mancini utilizza il genere per riflettere sulla cognizione del male e sulla reale natura dell’essere umano. Di Mani Nude abbiamo parlato con il regista del film Mauro Mancini.

Prodotto da Eagle Original Content, Pepito Produzionie, Movimento Film conRai Cinema e distribuito da Medusa Film, Mani Nude è nei cinema dal 5 giugno 2025.

Mani nude di Mauro Mancini

La frase di Edward Bunker – Non c’è nessun inferno e neanche un paradiso. La vita è qui. Il dolore è qui. La ricompensa è qui – che campeggia sullo schermo subito dopo la fine dei titoli di testa fa dello scrittore di Cane Mangia Cane non solo il nume tutelare del film ma anche il suo modello fondativo.

La citazione è presa da Educazione di una canaglia, la biografia di Bunker. Come detenuto più giovane di San Quintino Bunker a soli diciassette anni ha dovuto imparare a sopravvivere con detenuti adulti, cattivi e spietati come pochi. In questo il suo destino è molto simile a quello di Davide, il protagonista del film. Ritornando alla tua domanda la frase in questione mi piaceva molto perché in qualche modo costringe a prenderci le nostre responsabilità. E poi con quelle parole volevo “provocare” un po’ il pubblico.

Avendo in mente il pensiero dello scrittore americano mi sembra che l’attaccamento alla realtà e la mancanza di illusione presenti in quella frase appartengono anche a Mani Nude.   

Sì, secondo me è così. La provocazione nei confronti dello spettatore è quella. Penso che dopo aver visto il film le persone a cui è rimasta impressa non potranno fare a meno di trovarvi la stessa disillusione.

Dal romanzo al film

Sotto il profilo poetico esistenziale i romanzi di Bunker avevano almeno due caratteristiche che ho trovato nel tuo film. La prima è l’esclusione di qualsiasi metafisica a favore di una visione della vita fatta di sofferenza e dolore e senza una completa possibilità di riscatto.

Sì, e se per caso questa possibilità esiste deve essere trovata qui e ora. La provocazione di cui parlavo sopra era quella di trovare lo sprone per cercare nella nostra vita materiale un segno di speranza ultraterrena, anche perché in definitiva siamo noi a dover creare le condizioni per cui questa speranza si accenda. I protagonisti del film ce ne offrono un esempio quando provano a rendere questo mondo un po’ più accettabile.

Come nei romanzi di Bunker in Mani Nude il riscatto dei due protagonisti non lascia spazio a indulgenze romantiche perché a dominare è la sensazione della vita come condanna.

Alla fine Mani Nude è una riflessione sulla nascita del male e sul fatto che possiamo cambiare la nostra condizione che non è predeterminata. Nessuno nasce cattivo. Si può nascere in cattività o in qualche modo esservi costretti come succede a Davide. In quel caso se ne esce solo affrontando le nostre paure e le nostre colpe più gravi. Tematiche a me care già presenti anche nell’ottimo romanzo di Paola Barbato. Nell’adattarlo insieme a Davide Lisino ci siamo concentrati sul sotto traccia del libro che come succedeva in Non odiare riflette su quale sia la nostra vera natura e se nasciamo già predisposti al male o se ci viene insegnato o addirittura imposto, come succede oggi in certe latitudini della nostra società. In questo senso Mani Nude si chiede se impariamo dai nostri errori oppure se, come diceva Bunker, siamo prigionieri di quello che siamo. Se il film riesce a far riflettere lo spettatore su tali questioni sono contento perché la mia intenzione era di andare oltre il film di genere, cosa che Mani Nude a mio avviso non è. Il punto di partenza della trama magari sì, ma poi si parla d’altro. Se ci pensi questo modo di raccontare del cinema partendo da strutture di genere è diventato sempre più frequente. Molti dei film che hanno avuto nomination o hanno vinto agli Oscar in questi ultimi anni sono così. Pensa ad Anora, Emilia Perez e a Parasite.

Negli anni settanta ha iniziato a farlo la Nuova Hollywood, oggi continuano a farlo autori come Martin Scorsese e Clint Eastwood.

Esatto. A proposito della mia predilezione per Edward Bunker ti dico una cosa che non ho mai detto a nessuno e cioè che l’epigrafe iniziale doveva essere Cane Mangia Cane che è il titolo di uno dei suoi romanzi più importanti. Poi ci ho ripensato spinto dal fatto perché messa lì in quel mondo quella frase poteva risultate troppo criptica per chi non ha mai letto uno dei suoi romanzi.

Da Bunker a Mani Nude di Mauro Mancini

Come succede ai personaggi di Mani Mude anche nei libri di Bunker raccontano la deriva esistenziale di chi è condannato a vivere in carcere in condizioni di cattività.

Nei suoi romanzi si parla di una cattività che comunque gli uomini devono imparare a governare perché poi Bunker non è un nichilista. Lui mostra quella cosa ma non è il suo pensiero. Lo dico perché spesso succede così anche con la violenza. Mostrarla non significa sposarla ma solamente metterla in scena per quello che è. È giusto e normale che nel cinema la si usi per raccontare altro altrimenti diventa pornografia. Con Mani Nude spero di esserci riuscito altrimenti avrei sbagliato obiettivo. Prima che me ne dimentichi un altro tema sotto traccia del film è anche quello relativo al rapporto filiale tra padre e figli putativi e non biologici. È presente perché mi interessava analizzare il momento in cui scegliamo chi deve farci da padre al di là dei legami di sangue.   

Accennavi prima del filo rosso tra Non Odiare e Mani Nude. Mi sembra che anche qui continui a mettere in scena una sorta di vangelo laico. Con ancora più forza rispetto al tuo esordio decidi di adottare una chiave archetipica nella lettura di fatti e personaggi continuando a riflettere sul tentativo di invertire il sentimento di odio verso l’altro. Il personaggio di Minuto interpretato da Alessandro Gassman incarna alla perfezione questo percorso psicologico.

Sì, assolutamente. In questo caso mi sono preso la briga di inserire riferimenti molto precisi che segnalano lo stato del suo percorso emotivo. Nella sceneggiatura ad esempio non era previsto che pregasse davanti alla tomba della figlia. Quella è stata una scena molto forte anche per me ma era necessaria per aggiungere una riflessione ulteriore a quel momento. Sembra una cosa scontata ma arrivare a non odiare è qualcosa che fatichiamo a mettere in pratica. Lo dimostrano le tante guerre sparse per il mondo con il loro atteggiamento violento e predatorio. Ti dirò di più, a essere inaudita è anche l’indifferenza con cui la nostra società si è abituata a guardare a queste barbarie. La mancanza di una decisa presa di posizione ne è lo specchio. Per questo dico che non ci dovremmo preoccupare dei film violenti ma piuttosto di quanto violenta sia diventata la nostra società perché alla fine è questo a spingere i registi a fare film che ne parlano.

Nel film la presa di coscienza nei confronti della realtà interessa tanto il personaggio di Gassman quanto quello di Gheghi. È grazie a questo che i due contendenti – come già succedeva in Non Odiare – riescono a superare il loro antagonismo.

Prima parlavi di umanità e spiritualità come fossero due categorie separate e distinte. Secondo me in qualche modo questi due aspetti devono necessariamente andare di pari passo. Facendo i conti con la tua coscienza è impossibile non entrare in contatto con queste due aree: i due protagonisti lo sperimentano nel momento in cui tentano  di invertire il processo di disumanizzazione che li ha portati allo stato di degrado in cui li troviamo a inizio film. Parliamo di una condizione che tutti noi viviamo sulla nostra pelle senza rendercene più conto ed è per questo che il cinema deve prendersi anche il compito di svegliare le coscienze” In Non Odiare avevo cercato di mostrare in guardia lo spettatore sui rischi a cui saremmo andati incontro continuando a seminare odio quando ancora i segnali di quello che sarebbe accaduto erano ancora molto timidi. Il romanzo di Paola non presentava un passaggio così coerente con quanto raccontato in Non Odiare. Dei tanti spunti di riflessione presenti nel suo libro abbiamo fatto nostri quelli che ci permettevano di sviluppare il cinema che voglio fare. Alla fine portare sullo schermo questo romanzo è stata una scelta giusta anche perché mi ha messo davanti alla possibilità di fare un film molto difficile. Per quanto mi riguarda voglio fare opere scomode perché credo che il cinema non debba essere confortante.

Catarsi conclusiva?

Quello che dici lo si vede dal come la mancata catarsi conclusiva è inframezzata dal superamento della condizione di partenza e dunque dal venire meno del sentimento di repulsione che mette i protagonisti uno contro l’altro. Di fronte alla constatazione che la vita è un inferno Mani Nude ci mette di fronte alla possibilità di non contribuire ad alimentarlo regalando una speranza d’amore all’umanità.

Il cinema non deve fornire ricette preconfezionate perché la realtà è di per sé contraddittoria. Quello che invece può fare rispetto al conseguimento di un obiettivo è delineare una tendenza per raggiungerlo. Non è detto che tu ce la faccia ma il fatto di innescare il processo che può provare a coglierlo è l’unica via per tentare di riuscirci. I miei personaggi si pongono il problema e a quel punto fanno di tutto per provocare un principio di cambiamento al punto che Minuto diventa padre di quel figlio che indirettamente ha provocato la morte di sua figlia di cui anch’egli si sente responsabile. Nel momento in cui si assume quella responsabilità e la divide con il ragazzo, capisce e si mette in ascolto. Solo così può avvenire la comprensione di se stesso e dell’altro. Così fa anche Davide accettando di andare incontro al suo destino rinunciando all’amore per Eva. Sceglie quella strada perché nel processo di cambiamento quella è la cosa più giusta da fare.

Il superamento dell’odio tra i due personaggi rappresenta una vittoria all’interno di una vicenda senza lieto fine. Mani Nude mette in scena percorsi non lineari privilegiando la realtà alla fantasia.

Ti ringrazio perché si tratta di una cosa che anche noi come esseri umani dovremmo imparare a fare sconfessando la richieste di una società che ci chiede di essere sempre performanti. Sinner nella finale del Roland Garros ci ha mostrato che si può uscire da una sconfitta a testa alta nella consapevolezza che gli errori ci fanno crescere. D’altronde la risalita dopo una caduta è una delle cose più emozionanti che può fare un essere umano. Risorgere dalle proprie ceneri è una delle avventure più interessanti da raccontare. Quando parlavo del piacere di affrontare film che mi mettono in difficoltà intendevo proprio quello di cui mi chiedi nella domanda. Detto che nella prima parte Mani Nude è un film complicato da realizzare dal punto di vista tecnico, in generale articolare la narrazione nel modo che hai enunciato nella domanda richiede la capacità di sconfessare il genere pur rimanendo sempre all’interno dei suoi cliché. Da parte mia ho cercato di sfruttarne gli stereotipi per costruire qualcosa che superasse il noir nel tentativo di sorprendere lo spettatore non solo nel finale ma anche nel corso della narrazione.

Il giro ossessivo del camion in Mani nude di Mauro Mancini

Nel film costruisci una metafisica del reale trasportando nel quotidiano gli elementi che di solito rimandano a una dimensione trascendente. In questo senso la ripresa dall’alto in cui vediamo il camion girare ossessivamente intorno al suo asse senza soluzione di continuità sembra assimilare la vita a una sorta di girone dantesco dal quale è impossibile uscire.

È proprio ciò che volevo intendere con quella scena. L’hai detto così bene che sarei tentato di non aggiungere nulla. Il richiamo a Dante era voluto fin dall’inizio. Mi fa piacere che tu lo abbia colto perché per un regista non c’è niente di meglio che vedere capite le proprie suggestioni. L’inizio è fortissimo soprattutto per come riesce a trasmettere la paura senza farti vedere nulla. A fare la differenza non è il movimento del camion ma le urla provenienti dal suo interno. Il cinema è fatto di suoni e non solo di immagini ed è questa la ragione per cui  una scena come quella non avrei potuto scriverla ne girarla per la televisione. Ogni medium ha il suo passo e i suoni  appartengono al respiro del cinema.

Elementi del noir

Sempre in quella prima scena emergono altri elementi tipici del noir. Penso al tema dell’eterno ritorno che poi ritroviamo nel corso della storia negli sviluppi della relazione tra Davide ed Eva quando il passato del ragazzo si ripresenta impendendo alla felicità di fare il suo corso.

Assolutamente sì, grandi noir hanno sempre questa tematica.

Penso a Carlitos Way, solo per fare un nome.

Beh, lì parliamo di vette altissime. Certo la presentazione del personaggio interpretato da Gassman ripreso di spalle mentre guarda il camion fumando è puro noir. In definitiva il gioco è sempre quello di rimescolare i generi cercando in qualche modo di crearne uno nuovo che non per forza deve rispettare  quelli che negli anni sono diventati cliché. Smontarli non vuol dire ignorarne la conoscenza ma cercare di andare oltre. Questo accade quando fai un melting pot di cose che hai visto. Certo poi l’amalgama deve funzionare altrimenti è un disastro.

Se la vita è un inferno, come dice Bunker, e come dimostrano le immagini del film Renato Carpentieri ne è il diavolo. Così infatti appare la sua figura, per certi versi vicina a quella luciferina impersonata da Robert De Niro in Angel Heart. Quando D’Amato si rivolge a Minuto dicendogli – tu sei mio – ci appare come un vero e proprio mangiatore di anime. Con queste premesse è impossibile non pensare agli avversari di Davide e Puma come a una sorta di nuovi demoni.

Sì, in realtà è un po’ così. La differenza con il film di Alan Parker è che la storia del personaggio interpretato da Carpentieri è più legato alla luce del sole, questo anche per creare contrasto con l’oscurità della sua natura. Quella di D’Amato è l’anima più oscura di tutto il film eppure la vediamo spesso immersa nel biancore della luce. Persino il latte che a un certo punto gli vediamo bere concorre a creare questo conflitto. Sui personaggi hai ragione a dire che sono un pò dei demoni, sempre e comunque intesi in una chiave terrena e terrestre. Parliamo di persone costrette a diventarlo contro la loro volontà. Puma – interpretato dal bravissimo Paolo Madonna, qui al suo primo film – per esempio è un personaggio dolcissimo. Lui non nasce cattivo ma è obbligato a diventarlo. Quando soccombe dimostra di non esserlo fino in fondo. La stessa cosa succede a Davide. Se non fosse stato salvato da Minuto sarebbe morto anche lui proprio perché la sua è una cattiveria indotta dagli estremi delle circostanze che si ritrova a vivere. Nel combattimento finale perde perché non lotta più per salvarsi, ma per vendicare l’amico. Questo gli fa perdere l’istinto animale che fin lì è riuscito a salvarlo.

I campi lunghi

Nel film utilizzi i campi lunghi per rendere il processo di disumanizzazione dei personaggi. Esemplare è quello del primo incontro alla luce del sole tra Amato e Minuto in cui i personaggi sembrano parte integrante del groviglio di lamiere post industriali che domina il cantiere a cielo aperto in cui si svolge il confronto. Quel campo lungo alla pari degli altri sembra sancire una volta per tutte la trasformazione dell’uomo in macchina e dunque la sua definitiva disumanizzazione.

Sì, se ci pensi la prima disumanizzazione di massa aveva a che fare in un contesto industriale con gli operai costretti a lavorare come bestie. L’intelligenza artificiale poi sta completando questo concetto. Philip Dick su tutti ci aveva avvertito anni fa che una cosa del genere sarebbe successa.

Dopo la sequenza iniziale manifesti la crisi di Davide nelle sequenze ambientate in discoteca dove le distorsioni musicali, i rallenti visivi e il cortocircuito spazio temporale sono indice di una trasfigurazione del reale destinate a durare per il resto del film.

Sì, è così. In realtà ho molto da dire su questa cosa. Abbiamo cercato con tutti i mezzi a disposizione di seguire il registro di cui hai appena detto. Per farlo il suono è stato fondamentale perché nel buio della sala  è quello a costruire suggestioni che una la visione casalinga non è in grado di replicare. Quando uno pensa al cinema lo fa immaginandosi quello che hai detto prima e cioè la possibilità di costruire uno spazio tempo con degli strumenti che sono le immagini, la fotografia, le scenografie, i costumi, con il lavoro di messinscena e con quello degli attori. Poi però a fare la differenza concorre anche ciò che avviene in post produzione, al montaggio principalmente e poi quando il sound design è capace di creare i suoni più adatti a commentare il racconto. La colonna sonora poi è fondamentale. In questo caso l’ha firmata Dardust. È la prima volta che si cimenta nel cinema e che lo abbia fatto con il mio film mi rende particolarmente orgoglioso perché dopo tante proposte ha deciso di debuttare con me. Con lui, il montatore Gianluca Scarpa, segnatevi questo nome, e tutto il reparto della post produzione del suono abbiamo lavorato di cesello al punto che a volte la dimensione del film la da quasi più il sonoro che il visivo.

A proposito di suoni quello che ascoltiamo quando Davide si ritrova per la prima volta prigioniero all’interno della nave sembra quello di un animale ferito. Trattandosi di un suono ancestrale non ho potuto fare a meno di pensare al lamento delle balene che è allo stesso tempo umano e disumano e che assomiglia a un grido che mescola angoscia e paura. 

Ciò che volevo restituire era esattamente quello che dici tu, ovvero il suono di un animale marino ferito e quindi di un’orca o di una balena. Per ricercare questo tipo di effetti avevo chiesto al fonico di presa diretta di andare a registrare i suoni della nave nei giorni in cui era ferma al porto. Dopo averli raccolti una piccola percentuale di questi sono stati dati a Stardust per inserirli nella colonna sonora. Per il resto sono stati utilizzati dal comparto di post produzione del suono che ha pensato a mixarli e ad aggiungerli alle immagini.

Gheghi nel ruolo di Davide

Volevo parlare di Davide e dei combattimenti presenti nel film. La prima osservazione è quella di una ricerca estetica volta ad eliminare dagli stessi qualsiasi tipo di spettacolarità. Anche la scelta di Gheghi con la sua muscolatura nervosa ma non pompata come si vede in analoghi film americani va in questa direzione. Presentare Davide con una figura tutto sommato esile rispetto a quella dei suoi avversari crea un cortocircuito con il suo essere allo stesso tempo vittima e carnefice.

Innanzitutto ti voglio ringraziare perché quanto dici a proposito della non spettacolarizzazione non solo è coerente con le mie finalità, ma perché innesca una riflessione molto interessante: la mia esigenza infatti era di non avere combattimenti spettacolari. Un po’ perché non volevo replicare i film di Van Damme e di Jakie Chan, un po’ perché la violenza non è mai spettacolare, ma solo terribile e dunque non avrei mai voluto realizzare qualcosa che può essere emulato. Volevo che il film arrivasse fortissimo come i pugni dei vari contendenti, quelli che ti lasciano stordito senza darti la possibilità di dire – wow che figo! Il fatto di volere qualcosa di iper realistico mi ha portato a chiedere allo stunt coordinator di realizzare dei combattimenti da strada, fatti di persone che fino al giorno prima non vi si erano cimentati. Da qui i movimenti scoordinati e direi quasi sgrammaticati rispetto all’estetica del cinema mainstream. Questo mi ha permesso di toccare quel realismo a cui facevi riferimento. Ciò non vuol dire che dietro a quei gesti non vi sia un lavoro coreografico ma solo che anche questi sono andati in direzione di una assoluta verosimiglianza.

Francesco Gheghi a livello fisico si presentava in qualche modo inadeguato al ruolo, ma è proprio questo che mi ha spinto a prenderlo Anche se ha guadagnato 10 kg di massa muscolare rispetto al suo normale standard per me era necessario che non assomigliasse a Sylvester Stallone e a Van Damme perché vedendoli non ti viene mai in mente che non sappiano combattere. Forse se devo trovare un modello di riferimento potrebbe essere quello di Bruce Lee che anche nei film i suoi avversari non prendevano mai sul serio considerandolo troppo mingherlino; definito ma non grosso. E ancora il Brad Pitt di The Snatch che pur avendo un gran fisico non rientra tra quelli super muscolari e che per questo nel film viene sottovalutato dai suoi avversari. Tornando a Gheghi non mi interessava che sapesse combattere ma che fosse in grado di dar fondo al suo istinto animale, quello che lo salva facendolo sopravvivere. Infine per quanto riguarda l’idea visiva dei combattimenti quella che gli si avvicina di più è presente in Django nello scontro tra i due Mandingo in cui la lotta si vede solo in pochissimi momenti perché a essere inquadrato è più che altro il viso di Di Caprio e i pochi attimi in cui è mostrata risulta efferatissima proprio perché non ci sono regole, al punto che come nel film di Tarantino anche nel mio a un certo punto uno morde il braccio dell’altro.

Scene di combattimento

Nel film ci sono tre scene di combattimento, ognuna delle quali è caratterizzata da un colore dominante richiamato per segnalare un preciso stato d’animo. Nel primo infatti il colore verde acido sottolinea lo straniamento di Davide, totalmente avulso da quel contesto mentre il secondo, immerso in un rosso molto accesso, segnala al contrario il coinvolgimento emotivo di Davide, conseguente al fatto di vedere l’amico coinvolto in un combattimento mortale. Il terzo invece sottolinea il termine del percorso di immedesimazione in cui Davide si sente pienamente coinvolto nella parte e pronto a vendicare Puma.

Di nuovo grazie per averlo segnalato perché è proprio così. In effetti la diversa colorazione sottolinea ogni volta lo stato psicologico di Davide che inizia il primo combattimento dicendo di non voler morire  mentre nell’ultimo dichiara che non gli interessa nulla di perdere la vita.

Peraltro rispetto ai primi due il terzo ha un’immagine meno sporca e meglio definita proprio perché il personaggio si sente finalmente a fuoco rispetto a quello che fa.   

Anche qui non ho nulla da aggiungere tranne dire che quello voleva essere l’intento ma solo aggiungere che le lievi differenze tra i tre combattimenti riguarda anche il modo di combattere degli sfidanti che corrisponde alle diverse categorie e quindi alla maggiore e minore destrezza dei partecipanti.

Delle scenografie mi interessava capire in che modo hai lavorato tenendo presente che il risultato riesce a dare vita in maniera credibile a una realtà apocalittica e post industriale tipica degli universi distopici. 

In un certo senso l’idea era quella. Il fatto che Davide non riesca neanche per un attimo a capire dove viene catapultato equivaleva a realizzare una sorta di mondo parallelo che di nuovo non ha solo le regole ma anche le architetture. Ci tengo a sottolineare che le scenografie sono state realizzate da Stefano Giambanco, la fotografia da Sandro Chessa, giovane direttore della fotografia tra i più talentuosi tra quelli in circolazione e i costumi da Camilla Giuliani. Tre professionisti incredibili.

I protagonisti di Mani Nude di Mauro Mancini

In un racconto pervaso da una grande afflizione sia Alessandro Gassmann che Francesco Gheghi hanno fornito prove eccellenti per immedesimazione fisica e per l’asciuttezza psicologica che distingue il tormentato percorso psicologico dei personaggi. Di Francesco mi ha colpito la compresenza di animalità e paura, di Alessandro la capacità di regalare al suo personaggio il carisma necessario a farne il mentore del ragazzo. 

Parliamo di due attori straordinari. Con Alessandro avevo già lavorato per cui ne conoscevo il valore e in particolarità la dote di restituire con poco emozioni fortissime, cosa che gli ha permesso di fare un monologo bellissimo passando attraverso registri e temperature emotive differenti all’interno di una singola scena lunga non più di un minuto Parlo di gesti muti fatti di un semplice sguardo oppure di silenzi che mi riportano ancora una volta all’essenza del cinema in cui per me le scene devono funzionare anche quando sono in campo lungo e senza sonoro. Il carisma poi è una cosa che hai oppure no. Alessandro aveva mostrato di averne anche facendo cose più leggere come Il Professore mentre qui lo mette a disposizione per un personaggio altamente drammatico.

Francesco invece ha fatto Mani Mude prima di Familia e questo anche a detta sua gli è servito per interpretare il personaggio del film di Costabile con cui ha riscosso un successo ampiamente meritato. Sia lui che Paolo Madonna hanno interpretato il ruolo con il massimo della disciplina, entrambi pronti a prendere peso sottoponendosi agli allenamenti dei personal trainer e alle diete del nutrizionista messimi a disposizione dalla produzione.

Sapevo che Francesco poteva essere giusto a livello interpretativo ma non l’ho voluto vedere subito per paura che avrei utilizzato lui come metro di paragone. Così l’ho convocato dopo due settimane, quando il casting era già in uno stato avanzato. L’ho scelto anche perché ero sicuro che mi potesse restituire tutto ciò che mi interessava in termini di rabbia repressa attraverso piccoli movimenti interiori. In più aveva l’ambivalenza che cercavo, quella che gli permette di arrivare a gradi inauditi di violenza ma anche a un’enorme fragilità interiore. Lasciami aggiungere un’altra cosa e cioè che è vero,  ho fatto un film duro, che non fa sconti, ma oltre a rispettare la premessa del libro di Paola Barbato mi sentivo di dover rispettare le premesse etiche ed estetiche di ciò che dovevo mettere in scena. Perché l’estetica nel cinema è l’etica. Ne è venuto fuori un film che non vuole in nessun modo mettere in mostra la violenza ma vuole invece unicamente mostrare i suoi effetti  sul corpo e sull’anima degli esseri umani.  E che urla che la violenza in tutte le sue forme possibili è orribile. Quando esci dalla visione di Mani Nude hai solo un grande desiderio, abbracciare qualcuno.

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