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Il volto della Medusa. Il cinema di Nikos Koundouros (prima parte)

Il cinema dei margini da riscoprire. Rubrica a cura di Beniamino Biond

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Nikos Koundouros nasce ad Aghios Nikolaos (Creta) nel 1926, discendente in una famiglia borghese di politici con una grande tradizione. Studia architettura – non terminando i suoi studi – e, contro il volere del padre, si rivolge alla pittura e alla scultura ottenendo la laurea presso la Scuola delle Belle Arti di Atene (1948). Pur non studiando cinema, frequenta per lungo tempo le sale cinematografiche e il Cineclub di Atene, e si batte per un rinnovamento del cinema greco, sull’esempio del neorealismo italiano. A causa del suo carattere emancipato e rivoluzionario, oltreché per la sue opinioni antigovernative, viene espulso durante la guerra civile a svolgere il servizio militare sulla spaventosa isola di Makronissos, tragico limbo eretto dalla borghesia greca. Qui si dedica al teatro e manifesta una prepotente vocazione per il cinema, stravolgendo l’origine sociale reazionaria della propria famiglia sino al marxismo e alla costituzione culturale di una autentica linea espressiva.

Koundouros inizia la sua carriera cinematografica assieme al fratello maggiore Roussos, dirigendo e producendo due documentari sui terremoti delle isole ioniche e della Tessaglia, che verranno però vietati dalla censura, determinando la svolta del cineasta verso la realizzazione di miti. Nello stesso anno debutta nel lungometraggio con Magiki Polis (Città Magica), film in cui il neorealismo si coniuga con un linguaggio figurato. Ispirato ad un soggetto di Margarita Limberaki, il film è la storia di un giovane autista che lotta per sfuggire alla povertà e alle pesanti condizioni familiari e per sposarsi con la sua amata, ma finisce catturato in una drammatica vicenda con una piccola banda locale, fino a quando l’aiuto collettivo del suo borgo non lo porta in salvo. In Magiki Polis si comparano due mondi, due ineguali, sebbene autentiche, biologie sociali: quella degli squallidi quartieri ateniesi dei rifugiati dell’Asia Minore e quello della Magic City, una sotterranea sala da giochi in via Panepistimiou, nel centro di Atene, nella quale il ritmo concitato della musica yankee rileva la tensione mimetica al mito del nuovo mondo che attraversa radicatamente l’odierna società greca, e dove l’eroe di borgata rimane prigioniero nella rete infida dei malavitosi. Il motivo della criminalità, in un ambiente di poveri cristi, sarà un tratto perenne dell’opera del cineasta greco, che tuttavia egli destruttura in opposizione al modello dominante del gangster movie americano. La morfologia psichica dei motivi delinquenziali non attiene ad un generico principio di trascendenza del male, narrativamente suggestivo ma sociologicamente reazionario, e piuttosto viene collocata in un ambito sociale e urbano – laddove radica la cultura del rebètiko –  che sfugge al mero corollario esornativo per prodursi come testo di fondazione esistenziale. Il borgo miserrimo, con le sue donne  sospettose che giacciono serrate all’ombra dei vasi col basilico, dentro baracche intramate di arazzi alle mura, intanto che gli uomini faticano per il pane, e, per converso, la parodia vagamente ridicola ancorché felice della ricchezza, la costituzione artificiosa di un paradigma sociale emulato, magico e dunque isolato, doratamente reietto, che è la sotterranea sala da biliardo nella quale convengono i giovani ambiziosi e i velleitari del povero borgo: facili donnette transitano come spettri incarnati su uno sfondo di eterna procrastinazione. Ma l’ambiente dei contrabbandieri è altrettanto attraversato da un arcaico senso dell’onore, contrassegno però di inquietudine e mai esito di una qualche volgare arrendevolezza. Estraneo alla rappresentazione parodica, Koundouros coltiva l’inquietudine di un cinema anfibio dell’ambiguità, quel principio di una incertezza divorante che si fonda come realismo lirico: non dunque un vacuo estetismo iconico, ma congiungimento squisitamente culturale tra indagine sociale e tracciato epico. L’ambiguità diviene un rito di contaminazione che adopera l’organismo espressivo di un neorealismo usurante declinandolo ai codici memoriali di una grecità autentica e remota. Al di là di ogni ragionevole dubbio, Koundouros coglie lo spirito della sua patria, primo fra tutti i cineasti greci. Le connotazioni profonde di tale spirito, che balugina tra il reale ed il fantastico, afferisce a topoi scenici elettivi: luoghi (Durguti, Kessariani, la vita notturna di Ormonia, il mare intravisto dal quartiere di Kastella) ed interni brutalmente dimessi e scomposti (secondo un progetto dello stesso regista). Anche sui personaggi, Koundouros opera una scelta radicale in favore di giovani dilettanti la cui approssimazione più adeguatamente riproduce il senso stesso di inquietudine che l’opera trasmette. Persino sotto l’aspetto produttivo, Koundouros si affida ad un singolare quanto inedito sistema di finanziamenti: egli stesso produce il suo lavoro col sostegno di alcuni amici e collaboratori, così potendosi sottrarre alle pressioni dell’industria commerciale. Il film, proiettato fuori concorso a Venezia nel 1954, fu accolto dalla critica come un notevolissimo lavoro in ambito di neorealismo.

Con il suo secondo film O Drakos (Il Drago), che rappresenta la Grecia al Festival di Venezia del 1956, Koundouros – su soggetto di Iakovos Kabanellis – offre una rappresentazione squisitamente greca della figura di un “uomo senza qualità” che ha gradatamente corroso il glorioso mito dell’eroe. Thomas Iliopoulos, un uomo ingenuo e insignificante, rassomiglia ad un noto delinquente, chiamato “l’orco”. In un primo momento tale coincidenza lo impaurisce e gli crea seri problemi; quando però si rende conto che questa falsa identità gli consente di uscire dall’anonimo grigiore della sua squallida esistenza, in un moto di ribellione e di sfida alla società decide di sostituirsi al vero “orco” ricercato dalla polizia. L’inganno viene però scoperto e Thomas paga con la vita la sua ridicola ambizione. Francois Truffaut, vedendo la pellicola, ne scrive un’ode ammirata[1], e il critico ellenico Vassilis Rafailidis[2] afferma che “…l’anno 1956 si deve considerare come il passaggio dalla preistoria alla storia del cinema greco (…) cioè intendendo che il cinema ha mostrato i primi segni d’arte”. Koundouros firma dunque il suo autentico capolavoro e nasce il cinema d’autore greco. Il protagonista dell’opera, Thomas, è un piccolo uomo intrappolato nel caos generale di un paese che lo imprigiona. Egli, eroe senza eroismi, ingenuo e sordido, circondato da un sottobosco di umanità kafkiana, va incontro ad un riscatto che sarà tragedia e fine di un sogno di potere e autorità. L’icona classica del diseredato che, eroicamente, riscatta gli oppressi, in Koundouros è rovesciata nell’avida utopia di una ridicola maschera sociale. La vicenda dell’umile impiegato non ammette esitazioni: Koundouros adotta una prospettiva d’analisi crudele e manichea, eminentemente greca. Il percorso dalla mediocrità all’ambizione, attraverso i processi esistenziali e pragmatici di una traiettoria declinante, non ammette che una fatale rovina che nulla rimunera ad  una qualche tardiva saggezza. Pure il corollario di umanità malandrina che attornia l’impiegato, con i suoi banali riti e le sue trame dissennate, conserva un tratto eroico – figurativamente marcato – che ammanta dell’aura mitica di una divinità ctonia i gesti di questo povero branco di vittime sociali. Opera in bianco e nero, cromaticamente suggestiva, svolta per una solenne architettura di sequenze che ha certa memoria dell’espressionismo tedesco (merito della sensibile fotografia del grande Kostas Theodoridis) , O drakos ha facoltà d’essere interpretato per sineddoche. Escludendo il ricorso ad un simbolismo tout court – come taluni hanno tentato, dimenticando le origini neorealistiche di Koundouros – sarebbe appropriato fare riferimento ad un simbolismo realistico, o, meglio, ad un realismo necessitatamente simbolico, autentica nemesi al declino culturale della Grecia e ai suoi nuovi miti sociali. Il lavoro del cineasta ellenico opera una cesura radicale con le tendenze estetiche trascorse, per cui pure la grammatica dell’opera è l’esito di un realismo che si fa simbolo e analogia. Sono trascorsi cinque anni dalla guerra civile, e, in una stasi atroce tra attesa e paura, fiorisce una piccola-borghesia urbanizzata che radicalizza il mutamento antropologico in favore al mito del profitto. O drakos, autentico tipo psicologico, diviene il simbolo del terrore che campeggia sulla città senza volto, penetra attraverso le finestre sprangate di miseri alloggi, acuisce solitudini e avidità, giunge fino ai covi della malavita. L’espressionismo di Kondouros, con la profondità delle sue scene, gli angoli bui, l’incidentalità del movimento scenico, trasforma in ostile prassi il terrore della vita quotidiana: le ombre cupe dei quartieri popolari, lo squallore purulento delle strade malfamate, la mediocrità mentale dei dialoghi, l’angosciosa monodia sonora, conferiscono alla pellicola una suggestione lirica tipicamente espressionista (dunque rovesciatamente malinconica, urlata e ferita). Le azioni dei personaggi, antinomiche e frastagliate nei loro fini, tessono un panorama interiore volto alla rappresentazione di una terribile scissione sociale: fra tradizionalismo e riforma, Koundouros descrive col superamento della fine il suo inizio. Il principio del realismo critico, citato dal saggista greco Yorgos Korras, appare dunque come una  concreta prefigurazione, mentre il riferimento stilistico al realismo poetico francese o al Fellini de “Il bidone” – di cui scrive Irini Stathi, appare francamente infondato. Il sottotesto poetico di Koundouros è tragico e non partecipa affatto della levità di certo cinema francese o del grottesco concentrico di Fellini. Non va dimenticato, infine, il contenuto politico dell’opera maggiore di Koundouros: gli effetti della guerra civile, l’influenza degli Stati Uniti e la colonizzazione dell’inconscio greco, l’abdicazione ad ogni senso dell’etica collettiva, la miseria periferica della metropoli inurbata, non possono sfuggire ad una ermeneutica politica che anticipa con sdegno il cinema di impegno civile.

L’analisi di Koundouros sulla contaminazione tra ceto borghese e masse popolari prosegue nel 1958 con Oi Paranomoi (I Fuorilegge). Girato tra le montagne della Grecia centrale, il film descrive il vagabondaggio di un gruppo di giovani che, avendo ucciso nel loro paese un traditore, cercano di sfuggire ai torturatori e di attraversare il confine. In questo solido dramma su un gruppo di ribelli perseguitati, in realtà partigiani, la terza opera di Koundouros – con le sue attinenze tematiche alla classe agricola e operaia – affronta alcuni drammi sociali la cui rimozione artistica era esito del clima di feroce anticomunismo del paese. Koundouros, indifferente a qualunque concessione al cinema commerciale, si interessa alla relazione dialettica tra uomo e società, tra natura e cultura, tra sacro e selvaggio. Concluso il dominio neorealistico, il regista affronta una più raffinata ricerca nel campo estetico e psicologico, che conduce a scene magistrali come l’entrata dei fuorilegge nel villaggio abbandonato, o a quella del canto che segue alla vista del nido delle aquile. Ancora, lo svolgimento per sineddoche diviene il timbro dominante del cinema di Koundouros. Oi Paranomoi è il primo film del cinema greco a svolgere simbolicamente il tema della guerra civile: le origini paterne di uno dei fuggiaschi, figlio di un esule politico, lo schema partigiano dell’azione, il vagabondare dei fuorilegge carico di suggestioni politiche. Inoltre, Koundouros concepisce una radicale simmetria – come è stato scritto – tra i rapinatori e gli uomini della resistenza: i primi in quanto rivoluzionari primitivi, i secondi in quanto liberatori. Ciò che li distingue è la coscienza di classe, che difetta nei primi e nei secondi è il senso ideale della loro battaglia: come nel cinema brasiliano, ma prima ancora di Nelson Pereira Dos Santos o di Ruy Guerra, tale archetipo di rappresentazione sociale muove all’analisi dei meccanismi di oppressione. E però il film non è – come è stato scritto da Aglaia Mitropoulos, “un grido disperato di protesta contro l’individualismo”[3]: meglio, Koundouros reagisce – degno cineasta di sinistra – sostenendo l’individualismo a servizio della collettività. In tal senso l’umanità e l’orgoglio dell’opera davvero compongono il senso autentico di un percorso non di soggezione alle masse, come accade nel cinema di regime, vuotamente didascalico, ma di squisito sincretismo estetico, culturale e biologico, alieno all’iperbole scolastica e alla dismisura riottosa.

Damiano Biondi



[1] “Cahiers du cìnema”, settembre 1955.

[2] Vassilis Rafailidis, Cinema greco, Egokeros, Atene, 1995, pagg. 19

[3] Ellinikos Kinimatografos, 1980.

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