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‘Mandy’, l’epopea psichedelica della vendetta di Panos Cosmatos

Tra dolore e distruzione

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“Il mio pianeta preferito è Giove. La superficie è una tempesta che imperversa da migliaia di anni, e l’occhio del ciclone è così grande che potrebbe inghiottire la Terra».

Così parla Mandy (Andrea Riseborough), all’inizio del film. Una dichiarazione che racchiude già l’intera narrazione. Non solo su di lei, ma sull’universo in cui sta per precipitare. E con lei Red, il compagno (Nicolas Cage), un uomo con le cicatrici di un passato mai svelato. Quando Red risponde “Saturno”, per poi cambiare idea e scegliere “Galactus, quello che mangia i pianeti”, il film è già annunciato. Anche se ancora deve cominciare. Il passaggio dalla contemplazione all’annientamento è tutto lì, in quella battuta: un annuncio di morte e di vendetta cosmica.
Il regista Panos Cosmatos non gioca con simboli, bensì li invoca.

La fotografia di Benjamin Loeb

Benjamin Loeb, che ha curato anche la cinematografia di Sick of Myself, si piega in parte alla visione lisergica e sensoriale di Panos Cosmatos.

“Dovevo resettare il mio cervello”

dice, perché Cosmatos non vuole luci motivate, vuole che la luce sia giusta per la scena, anche se non ha senso. Un’estetica che sovverte le regole per generare un universo completamente allucinato, a metà tra sogno e metallo fuso.

Loeb utilizza fino a cinque filtri contemporaneamente davanti alla lente, tra cui Corals, Chocolates, Tobaccos, Reds, per alterare la percezione e saturare ogni emozione. Il contrasto tra il blu ed il rosso, simboli della calma e della furia, è il linguaggio principale del film. I momenti tra Mandy e Red sono caldi, domestici, quasi dolci. Poi si ghiacciano, si infiammano, si deformano.

Il filtro ND grad che entra di traverso nell’inquadratura è un tributo a Black Rain, ma al contempo un’imperfezione voluta, un glitch che rompe l’illusione.
Il buio, più che un limite, è un’arma. 17 giorni su 29 sono stati girati di notte, con solo sette ore e mezzo di vera oscurità. Cosmatos rifiuta qualsiasi idea di luce lunare. Niente illuminazioni “plausibili” nei boschi. Solo ciò che viene dai fari delle macchine o dalle visioni interiori.

Due film in uno: contemplazione e catarsi

Mandy è strutturato in modo binario. Prima parte: amore, silenzio, per poi sfociare nel panico. Seconda parte: vendetta, fuoco, sangue. Ma non c’è cesura netta. Tutto è previsto, come in un rituale. La quiete serve a farci sprofondare di più nella furia.

Un revenge movie a tutti gli effetti come Kill Bill o Revenge di Coralie Fargeat, ma Cosmatos guarda oltre. I suoi riferimenti sono visivi, sensoriali, da VHS consunta. I Black Skull Riders sono i Cenobiti di Hellraiser, evocati dal corno sacro come demoni da un’altra dimensione. La tigre che fugge nella notte, la luna enorme, i colori slabbrati da VCR, sono icone fuori dal tempo, come su una copertina dei King Crimson o dei Bathory.

Red diventa una creatura mitologica, come Galactus. Non per il suo potere distruttivo, bensì per aver perso, bensì perché ha perso l’unico corpo celeste che contava: Mandy. E allora tutto si trasforma. Anche lo spettatore.

Gli archetipi tra dolore e distruzione

Cosmatos e lo sceneggiatore Aaron Stewart-Ahn disegnano i protagonisti come archetipi dell’inconscio junghiano. Mandy, con la cicatrice sul volto, è l’Anima ferita, la musa che ha guarito Red e che ora lo condanna al baratro. Red è l’Eroe spezzato, che solo attraverso la distruzione può trovare un senso e colmare il vuoto.

Il culto dei “Children of the New Dawn” è invece una maschera grottesca dell’Ombra collettiva: ipocriti, deformi, spietati. Jeremiah Sand è l’ego distorto dal potere e dalla vanità. Quando viene ridicolizzato da Mandy, la sua maschera cade, e resta solo l’uomo nudo e patetico che voleva essere un Dio. Il finale non è solo un’esecuzione, ma una rivelazione: l’Ombra viene riconosciuta e infine annientata. Anche nei sogni animati che punteggiano il film, Mandy appare come una dea morta, ma presente. Non è un fantasma, è una forza cosmica che plasma la realtà. È dentro ogni goccia di sangue, in ogni frastuono e Red ne è la sua estensione.

Un’opera su lutto e creazione

Mandy, che ha visto la sua premier al Sundance Film Festival 2018, nasce dalla perdita. Dopo la morte dei suoi genitori, Panos Cosmatos si è trovato solo, inchiodato alla sua immobilità.

“Ho visto me stesso dieci anni dopo, ancora seduto sul divano, senza aver fatto nulla della mia vita”

Da quel momento nasce il bisogno di creare.
Come Beyond the Black Rainbow, anche Mandy è un film sul lutto, ma se il primo era claustrofobico e immobile, questo è esplosivo. La rabbia è diventata forma. La morte, arte.

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