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“L’amore che ho” in una conferenza che si fa battaglia collettiva
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10 ore agoon
C’è stato un momento, durante la conferenza stampa di L’amore che ho, in cui l’atmosfera è cambiata. Non era più solo un incontro tra giornalisti e artisti. È diventato qualcosa di più: un rito collettivo. Un atto politico. Un gesto necessario in un paese che ogni giorno registra nuove forme di sopraffazione sulle donne, e che sembra ancora incapace di agire. Il film diretto da Paolo Licata – in uscita l’8 maggio 2025 – non è solo la biografia della cantautrice siciliana Rosa Balistreri, bensì un grido di rabbia che richiede ascolto.
Dopo il successo al 42° Torino Film Festival, L’amore che ho è approdato al Cinema Adriano di Roma il 5 maggio con una proiezione seguita da una partecipata conferenza stampa. Presenti il regista Paolo Licata, Carmen Consoli (autrice delle musiche ed interprete del personaggio di Alice), le attrici Lucia Sardo, Donatella Finocchiaro, Tania Bambaci, Anita Pomario e l’attore Vincenzo Ferrera, che nel film interpreta Emanuele, padre di Rosa: un uomo schiacciato da una cultura patriarcale che lo plasma e lo giustifica.
Rosa non si spiega, si moltiplica
Come si racconta una figura come Rosa Balistreri senza ridurla? La risposta, per Paolo Licata, è chiara: non si racconta in modo lineare.
“C’erano così tante cose che hanno segnato la sua vita che è stato difficile scegliere.”
E allora Rosa diventa quattro: Lucia Sardo, Donatella Finocchiaro, Anita Pomario e Martina Ziami. Un puzzle emotivo e narrativo che non cerca lì il classico filo conduttore, bensì la sua anima.
“Mi piacciono le sceneggiature complesse, non mi piacciono le storie lineari”
ha detto il regista, giustificando la scelta di un racconto che si sviluppa a strappi, per accumulo e per urto, piuttosto che per logica. Un’identità, quella di Rosa, che non si lascia incasellare. Come tutte le donne che non chiedono il permesso. Creando un ritmo anche musicale, voluto dallo stesso Licata. Una colonna sonora curata da Carmen Consoli che non accompagna, ma interroga. Che non addolcisce, ma amplifica.
La violenza come tema universale
Cosa significa interpretare Rosa?
“Fare l’attrice significa risparmiare tanto in analisi”
ha detto Lucia Sardo con l’intelligenza affilata che da sempre la accompagna. Perché Rosa è una ferita aperta. Ma anche un luogo di potere, di identità, di riconciliazione con sé stesse.
“È stata uccisa la sorella di mio padre quando avevo 2 anni e questa cosa mi ha lasciato qualcosina, non si parla mai di quelli che rimangono, non traumatizzati, ma il deserto.”
Lucia Sardo non racconta solamente il film. Racconta se stessa. Testimoniando un’altra delle tante storie che rischiano l’oblio. E in quel silenzio rotto dalla memoria di una violenza passata – familiare, sotterranea, irrisolta – si apre, senza dichiararlo, il vero cuore della conferenza stampa di L’amore che ho. Cosa significa restare? Cosa significa vivere nel “deserto assoluto” senza che nessuno nomini mai il dolore, senza che venga riconosciuto, senza che esista uno spazio per chi è stato segnato per sempre? Domande, appunto. Tante. Più delle risposte.
Anche Vincenzo Ferrera condivide con il pubblico la morte di sua zia. Uccisa negli anni cinquanta a sedici anni del suo fidanzato a seguito di un suo rifiuto. Lasciando sua madre in un perenne stato di rabbia, accompagnato da una cicatrice, con la quale i figli hanno dovuto fare i conti.
L’incomunicabilità superabile dal canto
Tania Bambaci, che interpreta Angelina, figlia di Rosa, affronta il tema dell’incomunicabilità. Nel film, il personaggio di Angelina è segnato da un silenzio profondo, che riflette una difficoltà nel comunicare con la madre e con il mondo. Non troppo diversa dalla madre, la quale sembra comunicare solamente attraverso la musica.
L’attrice ha trovato stimolante ‘mettersi dall’altra parte’, esplorando cosa possa spingere una madre a non riuscire a comunicare con i propri figli. Tania Bambaci, madre di un bambino di due anni e mezzo, si è dunque domandata cosa porta una madre a non comunicare con i figli? La sua interpretazione trasmette speranza, quella di riuscire a superare le barriere emotive, trovando alla fine una connessione, anche nel silenzio.
L’arte in tempi orwelliani
“Stiamo assistendo ad un impoverimento del linguaggio che riguarda l’arte in generale.”
Carmen Consoli, musicista e attrice del film, è una delle voci più lucide della conferenza. Definisce Paolo Licata “pignolo” ed “attento”, quest’ultima condivisa dallo stessa regista. Parla di Rosa, ma parla anche di oggi. Di un presente appiattito, “orwelliano”, dove il linguaggio artistico sembra svuotato, privato del rischio, semplificato. E allora cosa significa oggi riportare Rosa Balistreri al centro? Significa ricordare una donna che non si è mai piegata, che ha urlato contro il patriarcato senza farsi etichettare.
“Attraverso la cultura c’è evoluzione, questa è la vera rivoluzione di Rosa.”
Una donna che da zero ha imparato a leggere ed a scrivere, a cantare grazie ai cantastorie ed ad immergersi nel mondo culturale.
“L’amore che ho”: un film femminista
Quello che Paolo Licata costruisce non è solo un ritratto di Rosa Balistreri. È un’opera corale sul prezzo che le donne pagano per esistere. Ma anche sugli uomini – padri, mariti, compagni, ragazzi – che devono imparare a disinnescare le eredità patriarcali che li attraversano. L’amore che ho non vuole insegnare. Vuole far sentire. E lo fa con la musica, con la memoria, con i silenzi scomodi che attraversano le scene.
La conferenza si è conclusa con un dibattito sulla condizione della donna oggi. Anita Pomario definisce la situazione attuale un “disco rotto”. Un disco nel quale Lucia Sardo spera di vederci presto “i nuovi uomini”.