Conversation

‘La Guerra di Cesare’ conversazione con Fabrizio Ferracane

Di tutti i film che ha fatto ‘La guerra di Cesare’ è il suo film più libero

Published

on

Presentato in anteprima al Bif&st 2025 e prossimamente nei cinema distribuito da Rs production La Guerra di Cesare di Sergio Scavio è l’occasione per conversare con uno dei grandi interpreti del cinema italiano: Fabrizio Ferracane. Con Fabrizio Ferracane abbiamo parlato de La Guerra di Cesare ma anche di Anime Nere, Il Traditore, Ariaferma, Leonora Addio e molti altri.

La Guerra di Cesare è una produzione Ombre Rosse e Wellsee, in associazione con Metaphyx, in collaborazione con Rai Cinema, con il contributo del Mic – Ministero della Cultura, con il contributo della Regione Sardegna, l’Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione Spettacolo e Sport, con il sostegno di Fondazione Sardegna Film Commission, Fondazione di Sardegna, Roble Factory.

Prossimamente nelle sale distribuito da RS Productions e Mirari Vos.

Fabrizio Ferracane ne La guerra di Cesare

Da tempo aspettavo l’occasione di parlare con te. Il vantaggio di farlo solo adesso è che nel frattempo ti sei costruito una carriera di film belli e importanti di cui posso chiederti.

Parlare di carriera riferendola al mio lavoro d’attore mi fa impressione perché essere riuscito ad averne una è qualcosa a cui certe volte non riesco a credere. Te lo dico perché questo è un mestiere bello, potente, e poetico per cui non basta essere bravi per poterlo fare. Ho amici che sono attori straordinari che non riescono neanche a fare un provino. Anche io da giovane mi sono trovato nella stessa situazione per cui adesso ai registi con cui ho più confidenza faccio i loro nomi nella speranza di riuscire ad aiutarli.

Il lavoro è uno dei temi di cui parla La Guerra di Cesare, l’opera prima di Sergio Scavio che presentate in anteprima al Bif&st 2025.

Il lavoro è un’attività che nobilita l’uomo nel vero senso della parola. È una cosa importante. Oggi ci sono persone che campano con 600 euro di pensione, il che è una vergogna per chi nella vita non si è mai risparmiato. La Guerra di Cesare si fa portavoce di questi lavoratori, in particolare di quelli che hanno speso una vita nelle miniere della Sardegna. Abbandonate a se stesse queste sono simili alle tante fabbriche in disuso di cui è pieno il nostro paese, con il loro carico di storie, di cuori che battono, di mutui e di bollette da pagare. Alla fine il lavoro è quello che ti permette di avere le spalle dritte, di poter guardare i tuoi bambini e magari di comprargli un gelato.

La guerra di Cesare non racconta solo l’amicizia tra Cesare e Mauro, ma anche la memoria di un passato che i due protagonisti cercano di tenere in vita nonostante le rispettive inadeguatezze.

La tua è un’analisi giustissima. Come il mio personaggio, anche io talvolta sono un po’ impetuoso perché dentro di me credo che questo mi permetta di arrivare meglio alle persone e alle cose, salvo rendermi conto che non è così perché, come dice la mia agente, tutto è già che ti aspetta, pronto per essere colto con calma e senza alcuno sforzo.

Il film racconta la difficoltà di staccarsi dalle proprie passioni. Così è quella di Mauro nei confronti del partito comunista, così quella di Cesare per la musica anni ottanta.

Nel film la fine del partito comunista diventa simbolo di qualcosa di più grande che riguarda non solo la disaffezione verso un’organizzazione politica, ma anche nei confronti delle cose materiali. Penso all’importanza di certi palazzi lasciati andare in disuso, ma anche alla fine dell’amicizia tra le persone. Da qui l’altro tema del film, quello che riguarda la necessità di sapere ascoltare come fa Cesare con il fratello di Mauro, a cui nessuno presta attenzione per via della sua stupidità. Oggi giorno crediamo di essere tutti dei supereroi, pensiamo di risolvere tutto con la bacchetta magica senza degnarci di rivolgere lo sguardo a chi rimane indietro.

La guerra di Cesare raccontata da Fabrizio Ferracane

A partire dal tuo protagonista La Guerra di Cesare è popolato da un’umanità in disparte perché considerata inutile da chi governa il mondo. Un po’ come i cavalli che Mauro ha comprato con la buonuscita della pensione.

È vero. Tutti appaiono un po’ toccati. Sembrano quasi appartenere a uno strano limbo.

Dimenticati dal tempo, dal nostro tempo.

Sì. Dimenticati anche in termini di abiti e di arredamenti che appaiono sempre fuori contesto. Spesso mi stufo a stare con me stesso e il cinema in questo è davvero un toccasana perché nel corso degli anni mi ha permesso di conoscere personaggi belli e interessanti che poi ho avuto anche la fortuna di interpretare. Penso al Polifemo di Misericordia, il film di Emma Dante, a quello de LaTerra dei Figli, così diverso da quelli della nostra epoca.

Di tutti i personaggi che hai interpretato Cesare mi sembra quello che si lascia più andare senza preoccuparsi di essere giudicato. Le scene di ballo in cui si dimena come se non ci fosse un domani sono la testimonianza della sua libertà.

Sì, sono assolutamente d’accordo. Nell’interpretazione di Cesare il regista mi ha lasciato molto libero per cui i movimenti sincopati nelle  scene musicali sono il frutto della mia passione per il ballo.

È una libertà che si percepisce in maniera forte.

Sono un attore a cui piace molto essere diretto. Prima di ogni ciak sento la necessità di andare dal regista per sentirmi dire qualcosa. Mi accontento anche di una parola, di un colore, di un numero proprio perché ho bisogno di sentire su di me lo sguardo di chi ha concepito il personaggio. Devo sentire che lui è con me e quando succede ti accorgi che le scene vibrano in una maniera particolare. Quelle di Sergio sono state particolarmente poetiche e sentirlo mi ha fatto capire che tutto stava andando per il meglio. Successe così anche per Anime Nere. Mentre giravamo sentivamo che stava costruendo qualcosa di molto potente.

I movimenti fuori sincrono in cui si produce Cesare durante le sue danze sembrano rimandare a quell’essere “fuori (dal) tempo” che riguarda sia lui che chi gli sta attorno. È così?

È proprio così, non saprei dirlo meglio di quello che hai fatto. Devo dire che molte caratteristiche di Cesare appartengono anche un po’ a me. Anzi, ti posso dire che questo è il primo film in cui il mio personaggio somiglia così tanto a me.

Personaggi distanti

Da qui capisco che di solito fai il contrario, e cioè che nella scelta dei personaggi privilegi quelli che sono distanti dalla tua personalità.

Esatto. A me interessano quelli che mi permettono di dimenticare chi sono. Ogni volta è come se svuotassi me stesso per essere riempito dal personaggio di turno. Così, per esempio, è capitato con Claudio Cupellini per il provino de La Terra dei Figli. Quando mi disse che avremmo girato a Chioggia mi è venuto spontaneo pronunciare la erre come fanno al nord. Questa cosa succede solo se ti relazioni con frequenze nuove che di norma sono diverse da quelle della tua vita quotidiana. Non potrei mai iniziare un film sapendo che il mio personaggio somiglia a quello precedente. Intanto non mi divertirei e poi che senso avrebbe? Non sarebbe giusto neanche per il pubblico. Tieni conto che a me piace parlare con chi è poco considerato, con i cosiddetti ultimi. Sento la necessità di stare con chi ha la sofferenza addosso; con chi mi può dire qualcosa di potente, di forte. Nel rapporto tra Cesare e il fratello di Mauro questo aspetto si sente molto per cui mi è venuto facile metterlo in scena.   

Ti volevo chiedere della scena d’amore tra il tuo personaggio e sua moglie. Vado a memoria, ma mi pare che per te sia la prima di questo tipo. Peraltro si tratta di una sequenza molto carnale quindi molto reale e partecipata.

In realtà ne ho fatto un’altra in Uno per tutti di Mimmo Calopresti, ma lì si trattava di un semplice bacio e io ero vestito. Qui invece dovevamo ricreare un momento molto intimo e sensuale. La mia fortuna è stata quella di avere una collega molto brava come Sabina Zicconi.

Quella scena riesce a raccontare per intero un rapporto di coppia in cui il ricordo dell’amore si trova a fare i conti con il passare del tempo.

Sì, è vero, all’inizio li vediamo tornare a casa mano nella mano per poi esplodere in un momento di bruciante passione che non impedisce all’uomo di piangere e allontanarsi per poi ritornare da lei. Come hai detto quel breve frammento narrativo copre l’intera gamma emotiva della loro vita amorosa. Anche qui per la riuscita di quel momento è stato importante l’ascolto perché è solo da quello che nasce la potenza dell’azione. Se lavoro con un attore che aspetta l’ultima delle mie parole per dire la sua so già che la scena non funzionerà. La mia fortuna è stata quella di trovare sempre interpreti di grande livello, da Toni Servillo a Paolo Pierobon, Silvio Orlando e tanti altri.

Fabrizio Ferracane in una bolla temporale anche ne La guerra di Cesare

La guerra di Cesare ha una caratteristica tipica dei tuoi film, quello di collocare la storia in una sorta di bolla spazio temporale destinata a diventare un altrove geografico esistenziale. L’estraneità che ne deriva si fa carne nelle movenze sghembe del corpo e nel tuo essere sempre un po’ fuori posto rispetto al resto del contesto.

Mi stai dicendo una cosa bellissima perché è vero che in quei luoghi succedono cose che non si vedono altrove. Parliamo di spazi attraversati da entità che continuano a vibrare nella nostra mente. Ci sono persone sedute e pensierose con rughe prodotte dalle cicatrici dalla vita. In qualche modo tutto questo entra per forza di cose dentro di te.

È come se finissi per interiorizzare questi spazi per poi restituirli nel linguaggio del corpo e nelle espressioni del viso.

Molto dipende anche da chi, come il regista, quel luogo l’ha creato. È lui che mi ci mette in contatto. Poi di sicuro in quel limbo io mi ci tuffo anche se farlo significa mescolarsi nel fango e nella sporcizia. Può essere un mondo di lupi e puttane, ma a me non importa perché anche dietro il mondo più edificante si nasconde un ghigno malizioso.   

Personaggi tormentati

Quello che regali ai tuoi personaggi è un tipo di esistenzialismo che finisce per consumarli nel corpo e nello spirito. Di rado ti abbiamo visto ritratto in maniera linda e pinta. Il più delle volte il tormento dei personaggi si riversa sulla tua figura trasfigurandola.

Forse questo succede perché nella vita sono una persona molto tormentata. La fisicità nella recitazione è essenziale perché, come insegna il teatro, un corpo da solo è in grado di raccontare senza che i personaggi proferiscano parola. In Misericordia per esempio la stortura fisica di Polifemo l’ho costruita pensando che il suo occhio lo tirasse giù verso l’interno. Era come se fosse lacerato e mangiato da dentro e quando beveva immaginavo che ogni goccia di alcol bruciasse dentro di lui come il resto della sua persona. La sua camminata era la conseguenza di tutte queste cose. D’altronde il mio credo è che per raccontare la verità devo essere per forza autentico. Sembra un paradosso ma non riesco a fingere. Non riesco a prendere in giro le persone. Decidendo di fare questo mestiere sapevo che sarei dovuto andare fino in fondo interpretando personaggi uguali alle persone che la gente incontra per strada. A ispirarmi sono anche i quadri che di per sé ritraggono la postura di uno sguardo ma anche le statue perché sono in grado di cristallizzare il movimento di un personaggio. Ultimamente grazie al lavoro che ho fatto in teatro con Rino Marino sto rivalutando i costumi perché è come se con essi si mettessero i puntini sulla vita di un personaggio.

E poi in qualche modo la loro foggia imbriglia la fisicità restituendola nel modo in cui questa è costretta a muoversi all’interno di essi.

Giustissimo. D’altronde la prima cosa che vediamo sullo schermo come pure nella vita è un corpo in movimento e non quello che uno sta pensando. La fisicità può essere anche una faccia storta con l’occhio mezzo chiuso. Dopodiché quel corpo viene alimentato da un piede storto, da un paio di jeans. Poi c’è tutta la costruzione biografica del personaggio che me aiuta a capire il perché dei suoi comportamenti.

Elementi di complessità

Nella tua recitazione c’è sempre un elemento di complessità che corrisponde a quella di cui si nutre la vita. In sostanza aggiungi sempre qualcosa, un dettaglio estetico, un elemento psicologo, un particolare materiale che in qualche modo mettono in discussione le premesse del tuo personaggio. Magari siamo di fronte a un personaggio positivo, ma la tua postura e l’espressione del viso sembrano smentire questa predisposizione. Gli esempi sarebbero innumerevoli. Ricordo il mafioso di The Bad Guys in cui gli aspetti più spregevoli non impediscono al personaggio di risultare simpatico.

Sì, perché poi nella vita i mafiosi pur essendo gente terribile quando c’è da ridere lo fanno. Uccidere le persone non impedisce loro di essere spiritosi e divertenti. Se una delle loro figlie mette al mondo un bambino non penso che non si emozionino. Ogni personaggio è composto da tanti strati, dipende da cosa ti viene chiesto di tirargli fuori. Se devo fare il cattivo vado fino in fondo nel modo più brutale però a me, anche come spettatore, piace sempre essere sorpreso dal personaggio che mi sta davanti ed è forse per questo che mi piace prendere in contropiede lo spettatore quando ne interpreto uno.

Il padre de L’arminuta è un altro personaggio spiazzante. Fin dall’inizio il suo atteggiamento è molto duro e distante poi, quando meno te lo aspetti, rivela un’empatia nei confronti della piccola protagonista che prende tutti in contropiede.

Succede quando la bambina riceve il libretto del concorso e lui dice alla moglie che quei soldi non dovranno essere toccati, ma rimanere a lei. Il suo sorriso quasi imbarazzato testimonia la vera natura di quell’uomo. Per riuscire a rendere credibile questo processo è stato fondamentale il lavoro di Giuseppe Bonito, regista con cui sono tornato a lavorare in Gerry, la serie che presenteremo al Bif&st 2025.

Il ruolo ne Il traditore

Rispetto a quello che abbiamo detto sopra il personaggio che interpreti ne Il traditore potrebbe essere una sorta di masterclass sul tuo modo di mettere in scena un personaggio dalla doppia natura perché Pippo Calò si racconta in maniera diversa da quello che è.

Per quel film ho vinto il Nastro D’argento eppure il mio personaggio devo ancora metterlo a fuoco. Di solito li sento vibrare mentre con Pippo Calò non è successo. Nella scena del processo lunga tredici minuti la mia preoccupazione era quella di ricordare tutto a memoria. Lì mi sono affidato al regista perché quando lavori con un grande artista come Marco Bellocchio devi solo restare zitto, ascoltare e cercare l’attinenza con il tuo personaggio. In quel caso è stato fatto un lavoro molto importante sui costumi. Su YouTube ho visto migliaia di video su Calò senza ascoltare la tua voce perché mi interessava soprattutto come si muoveva. Sono partito dalle parole traditore e tradimento per focalizzare quello che lui ha fatto e cioè tradire un amico fedele come Tommaso Buscetta. Da lì, con il testo alla mano, ho ripetuto le parole pronunciate al maxi processo. Come dicevi lui è uno che dice il contrario di quello che pensa. Detto questo al mio lavoro in quel film ci sto ancora pensando. Sono sincero.

Bellocchio è uno che mette in scena le sue visioni. Come attore in che modo hai avuto modo di percepire la sua peculiarità?

Con il suo modo di guardare un attore Marco finisce per renderlo eccezionale. Lui lo è nella sua costante ricerca, nella precisione dei dettagli, nel modo di pensare le cose. Dopo avermi fatto fare i provini per interpretare Vincenzo Cossiga mi chiamò per spiegarmi le ragioni per le quali scelse un altro attore. Pensa che all’inizio in segno di rispetto lo chiamavo Signor Bellocchio fino a quando non è stato lui a dirmi di non farlo. Quando ai David di Donatello pronunciò il mio nome dicendo che si augurava di lavorare ancora con me perché ero un grandissimo attore mi sono messo a piangere.

In effetti quando uscì Il traditore fra gli addetti ai lavori il tuo nome era tra i più gettonati per la stagione dei premi.

E già quella per me fu una grande vittoria. Mi ricordo di aver tenuto un trafiletto di Repubblica in cui si parlava bene di me proprio per quel film. Vengo da una famiglia di fisioterapisti e mi ricordo che quando mi sono trasferito a Roma mio padre mi diceva che se stavo male potevo tornare subito a casa incitandomi però a rimanere perché l’indomani mi sarebbe potuto capitare qualcosa di importante. La sua ispirazione è stato il mio motore. Devo tutto ai miei genitori e sono orgoglioso perché quello che ho raggiunto me lo sono costruito da solo.

Altri ruoli per Fabrizio Ferracane

Nella carriera degli attori più fortunati c’è sempre un film che gli ha cambiato la vita. Il tuo è stato Anime Nere di Francesco Munzi. Rivederlo mi ha fatto pensare a come il tuo sia un personaggio anomalo rispetto ai canoni del genere. L’eccezionalità di quel film ha riguardato anche le condizioni logistiche in cui avete girato per i lunghi spostamenti richiesti per raggiungere i luoghi dell’Aspromonte in cui è ambientata la vicenda.

È stata veramente un’operazione complessa, ardua, difficile ma appunto come ti dicevo mentre giravamo sentivamo di stare facendo qualcosa d’importante. Mi ricordo che Munzi mi chiamò due mesi prima delle riprese per raggiungerlo in Calabria per imparare il dialetto e in generale per respirare la stessa aria del mio personaggio. Poterlo fare come attore è stata una fortuna immensa. Mi ha dato una carica enorme. All’inizio avrei dovuto interpretare il personaggio di Peppino Mazzotta ma Francesco optò quasi subito per quello di Luciano. Dopo il provino mi chiese di improvvisare una seconda scena in cui davanti al cadavere di mio fratello avrei dovuto ridere. Fu una scena molto lunga e avere perso da poco un amico carissimo mi è stato d’aiuto per farla. Luciano è un personaggio enorme, di quelli che tutti gli attori vorrebbero interpretare.

Una figura da tragedia scespiriana.

Esattamente. Francesco di tanto in tanto mi si avvicinava ricordandomi di utilizzare gli occhi questo perché in molte scene il mio personaggio non proferisce parola.

D’altronde tu sei un attore che ama lavorare con i non detti.

Questo perché penso che a volte non ci sia così bisogno di parlare per far arrivare un sentimento. Anche se non dici una parola stai raccontando molto di più di quello che avresti fatto con i dialoghi. Vladan Radovic, il direttore della fotografia del film, mi fece notare che a un certo punto c’è un inquadratura in cui sono ripreso di spalle mentre guardo il cadavere di mio figlio. Dopo qualche secondo allargo le braccia senza dire una parola e in molti, compreso lui, mi hanno detto che sono capace di recitare anche in quella posizione. Questo succede quando senti il personaggio dentro di te e io Luciano lo porto ancora con me.

Non solo La guerra di Cesare per Fabrizio Ferracane

Tra i tuoi privilegi c’è stato anche quello di essere protagonista di Leonora Addio, l’ultimo film di Paolo Taviani in cui il regista racconta un episodio reale della vita di Pirandello come fosse una delle sue novelle.

Quando mi hanno chiamato pensavo fosse uno scherzo. Come con Marco quando me lo sono trovato davanti per la prima volta non sapevo che dire dall’emozione. Inoltre in quel film c’è tutta la mia sicilianità. Rivedermi sullo schermo in quello stupendo bianco e nero è stata un’altra grande emozione. E ancora, recitare con quel cappotto che mi ricordava quello di mio nonno è stato impagabile.   

Tra le sequenze più belle c’è quella girata all’interno del treno, con i vari scompartimenti che diventano altrettante tappe di un mondo in via di cambiamento.

È una sequenza bellissima in cui c’è di tutto: dall’amore alla puzza delle scarpe. C’è la voglia di fregare il prossimo, c’è la disperazione.

Ariaferma ti proponeva l’ennesimo altrove in cui hai recitato con due fuoriclasse come Toni Servillo e Silvio Orlando.

Servillo e Orlando sono due attori che ascoltano e quando questo succede accadono le cose. Loro due in particolare sono in grado di percepire la vita e il suo profumo e quindi sanno quando è il tempo di dire una battuta e quanto farla durare. Sanno come aspettarla. Recitare con i grandi attori come loro, come pure con Pierfrancesco Favino, ti infonde fiducia nelle tue possibilità permettendoti di sentire l’attimo che precede il momento in cui il corpo dell’attore si imprime nelle immagini. I più bravi lo fanno con una delicatezza potente che è diversa da tutti gli altri.

Ruoli da villain

Nel corso della tua carriera hai avuto modo di specializzarti nel ruolo di villain. Tra questi spicca quello di Diario di Spezie in cui sei una specie di Kaiser Soze reso celebre da i Soliti Sospetti e in cui sei eccezionalmente vestito di tutto punto. Ma potrei citare anche il cattivo di Non mi uccidere e ancora il padre padrone di Una femmina. 

In Una Femmina c’è la scena di spalle che è stupenda perché riesce a raccontare la malvagità del mio personaggio. Con Francesco Costabile è stato un incontro stupendo e meraviglioso, di quelli che si hanno quando i registi hanno le idee chiare e ti danno la spinta del loro amore. Diario di Spezie è stato un film bello, ma poco fortunato. Farlo ha significato essere credibile parlando con lingue come il francese e il tedesco che non sono le mie. Il libro da cui è tratto era già bello e il film riesce a tenergli testa.

Mi dicevi di Gerry, la nuova serie di cui sei uno dei protagonisti.

È una storia in cui si parla di bambini scomparsi e di un detective napoletano di origini rom che conduce le indagini. Io sono il suo diretto superiore e una sorta di padre putativo. Parliamo di un legame così intenso da averci più volte spinti al pianto nel corso delle riprese.  Giuseppe Bonito l’ha diretta senza porsi limiti e puntando a una qualità molto artistica. Per questo siamo molto curiosi di conoscere come verrà accolta quando uscirà a maggio sui canali Rai 1.

Il cinema di Fabrizio Ferracane

Per concludere volevo chiederti del cinema e degli attori che ami.

A me piace molto Kim Rossi Stuart perché è un attore sempre vero e credibile con cui mi piace molto lavorare. Il cinema è una questione di scrittura e dunque di storie. Quando ne hai una di valore insieme a dei buoni attori e un audio all’altezza il gioco è fatto.

Dunque è questo il criterio con cui scegli i copioni?

Sì, certo. Se sono importanti all’interno del film posso fare anche solo due scene ma la storia e la sceneggiatura mi devono convincere. Ho appena finito di girarne una di un mio amico, Lorenzo Perrotti, che ha messo in piedi un progetto potendo contare su un budget esiguo e senza alcun aiuto da parte di ministeri e film Commission. A me l’unica cosa che interessava era la bontà della storia. È per questo che ho deciso di farlo. In testa ai film che preferisco c’è il primo Rocky di cui conosco le scene a memoria. Amo L’attimo fuggente e Umberto D che è un po’ il mio cavallo di battaglia.

Exit mobile version