Passato al Bergamo Film Meeting, uno dei festival più importanti e longevi d’Italia, Hiver à Sokcho (Winter in Sokcho, 2024) di Koya Kamura, è al cinema dall’11 dicembre con il titolo di Un inverno in Corea (Hiver à Sokcho), esordio al lungometraggio. Tratto dal romanzo Winter in Sokcho di Elisa Shua Dusapin – pubblicato in Italia da FinisTerrae con il titolo Inverno a Sokcho.
Nel film Bella Kim impersona Soo-Ha, venticinquenne la cui esistenza oscilla tra Seoul dove dovrebbe trasferirsi a breve assieme a un fidanzato ossessionato dall’appena abbozzata carriera di modello e la cittadina costiera di Socko, dove la ragazza lavora come cuoca e cameriera in una vecchia pensione. L’arrivo dalla Francia di Yan Kerrand, illustratore in cerca di una stanza in affitto e soprattutto di ispirazione, è destinato a sconvolgere la sua routine quotidiana, risvegliando in lei domande sulla propria identità e su quel padre francese, mai conosciuto, riguardo al quale la madre sembra voler mantenere il mistero.
Lo spunto per il raffinato, introspettivo, quasi umbratile lungometraggio è di origine letteraria, ma sentiamo a riguardo Koya Kamura, l’autore: “Ho un background multiculturale, mia madre è francese e mio padre giapponese. Ho cercato a lungo il mio posto nella città, sentendo il bisogno di essere accettato in entrambi i Paesi. Hiver à Sokcho esplora il tema delle origini culturali e della ricerca di sé, ispirandosi al romanzo dell’autrice franco-coreana Elisa Shua Dusapin, che, attraverso il personaggio di Soo-Ha, affronta con efficacia e sensibilità la complessità dell’identità”.
Curiosamente, non è certo la prima volta che il topos dei possibili ponti tra cultura europea e cultura orientale viene costruito a ridosso di un immaginario francofono. Gli esempi più eclatanti che ci vengono in mente sono il magnetico, ombroso Ritorno a Seoul (Retour à Séoul, 2022) di Davy Chou e soprattutto il lungometraggio di un maestro del cinema coreano come Hong Sang-soo, Una viaggiatrice a Seoul (Yeohaengja-ui pir-yo, 2024), interpretato dalla grande Isabelle Huppert e meritato Gran Premio della Giuria alla Berlinale. Tuttavia, Hiver à Sokcho conserva quei tratti specifici che lo rendono un’opera personale e profonda.
La vita che si fa disegno
Tra le scelte di regia che abbiamo maggiormente apprezzato, nel lavoro di Koya Kamura, vi è il ricorso al disegno, all’animazione, giustificato a livello diegetico dal mestiere e dal talento del co-protagonista francese, interpretato da un accigliato Roschdy Zern, ma capace anche di librarsi verso orizzonti esistenziali più alti. La felice interazione di scene recitate dal vivo e scene disegnate sullo schermo si deve inoltre alla mano ispirata di Agnès Patron, responsabile delle sequenze di animazione.
Questo continuo contrappunto alimenta ulteriormente la dimensione ora così eterea e ora fortemente sensoriale, materica, di un film che vive anche del rapporto con l’inchiostro del disegnatore francese, dell’attenta, generosa preparazione del cibo da parte di Soo-Ha e di sua madre (maestra pure nel trattare il Fugu, pesce tradizionalmente utilizzato nella cucina giapponese per piatti tanto prelibati quanto potenzialmente letali, se preparati male), in tanti altri aspetti della quotidianità resi a livello fotografico con ammirevole plasticità e intensità. Hiver à Sokcho è anche un road movie dell’anima. Esplorata impressionisticamente con notevole tatto, la già menzionata cittadina portuale sudcoreana vi fa da sfondo, con le sue atmosfere apparentemente immobili, in modo ideale. Ma assolutamente riuscito e da ricordare è anche il vibrante detour al confine tra le due Coree, che non poteva non riportarci alla memoria autentici cult movies del cinema orientale, su tutti Joint Security Area, (Gongdonggyeongbigu-yeok JSA, 2020) di Park Chan-wook.