Acclamato oltreoceano e disdegnato in Europa: la controversa ricezione di Babygirl di Halina Reijn, dal 30 gennaio nelle sale italiane distribuito da Eagle Pictures, non sarebbe un oggetto inconsueto, da studio di caso, se un’opera tanto pruriginosa non fosse stata ben accolta da un pubblico cauto e di estrazione puritana come quello statunitense. Ibrido, bifronte, ondivago, il terzo film della regista e attrice olandese ha inaugurato il suo percorso in concorso alla Mostra di Venezia 2024, dove Nicole Kidman ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile (a cui è seguita la nomination ai Golden Globe).
Accalcato dai più in una categoria riduttiva come quella del thriller erotico di pratiche kink, ma anche insignito tra i migliori film dell’anno sia dal prestigioso National Board of Review Awards (con un premio anche all’interprete) sia dalle classifiche delle riviste di settore, Babygirl è un’opera divisiva per vocazione (qui la nostra recensione dalla Mostra di Venezia). Scostante per una patina di erotismo démodé e talvolta ilare per smagliature di inverosimiglianza di scrittura, Babygirl, dietro le porosità di un provocante prodotto mainstream, cela un’esplorazione intrepida e vibrante del desiderio femminile, la disamina dei ruoli soverchianti nelle dinamiche di genere, l’anatomia della carriera di una diva, una dissezione dei risvolti irreversibili nella civiltà della tecnica.
Mai maliziosamente ammiccante o compiaciuto, persino talvolta carezzevole, Babygirl elegge l’erotismo, sfrontato e impacciato, come mappatura scomoda della dualità e della confusione che soggiace in ognuno di noi. Un lavoro registico che plasma, nel piacere dell’intrattenimento, iconografie anni Novanta e abusi narrativi, in una risoluzione però carnevalesca, di rovesciamento dello sguardo virile al cinema come nella vita, appropriandosi dell’eccesso e dell’insulso come agile profanazione a radicati tabù, fino a una carsica estraniazione dai suoi stessi codici.
Il teorema dell’attrazione
Romy (Nicole Kidman) è l’amministratrice delegata di un colosso della robotica, autorevole e rispettata; con una famiglia solida alle spalle (marito regista teatrale, interpretato da Antonio Banderas, e due figlie) e una vita di agi appaganti, sembra un prototipo di successo inscalfibile. Fino a quando un avvenente giovane stagista, Samuel (Harris Dickinson, lanciato da Triangle of Sadness), intuendo la sua introversa inquietudine, non inizia a sedurla con mordace spudoratezza, coinvolgendola in una relazione trasgressiva e fuori controllo che metterà a repentaglio tutto ciò che Romy ha costruito.
Nicole attraverso lo specchio
Fin dalla prima inquadratura, fin dall’amplesso iniziale con la cinepresa sui gemiti di piacere di Romy, Babygirl apre un varco sull’ultima battuta di Alice/Nicole Kidman in Eyes Wide Shut (fuck), incorporando il film di Stanley Kubrick come sottotesto che filologicamente Halina Reijn scompone con rispettosa distanza per scandagliare non più le fantasie solo trasognate di un’altolocata casalinga insofferente e defilata, ma le emozioni di una manager nella sovreccitata soddisfazione delle sue pulsioni, con uno scavalcamento che non è gioco di biforcazione narrativa ma ulteriore indagine di senso.
Babygirl è l’altro volto di Eyes Wide Shut, uno dei tanti possibili, un versante lunare recondito, con Alice che trasfigura quella nebulosa di inafferrabile complessità del femminino (se solo voi uomini sapeste, sussurrava tagliente a Bill/Tom Cruise) in un personaggio qui trasposto: ancora una newyorkese ricca, ma ormai di mezza età, di cui ora il cinema si impegna ad esplorare il desiderio addentrandosi nelle sperimentazioni erotiche, con il marito specularmente in ombra.
Nicole in figura intera, nuda, di spalle, inquadrata tra i riverberi notturni del suo appartamento, in rima con l’incipit di Eyes Wide Shut; una trasferta in auto al termine della notte, poco lontano dalla confort zone dalla metropoli, verso una dimensione dionisiaca meno fatale ma comunque disdicevole per la protagonista, uno dei non pochi richiami al capolavoro incompiuto del maestro. Infine, un finale di agognato godimento, la chiusura di un cerchio in risposta alla conclusione non risolutiva del film del 1999, all’alba di un nuovo millennio con ossessioni e timori.

Per gentile concessione di Eagle Pictures
Sfumature dal grande schermo
Il cinema dunque soggiace all’inabissamento introspettivo di Babygirl, non come rilettura, preclusa a qualsivoglia intelligenza creativa, di Eyes Wide Shut, ma come attraversamento di uno degli specchi che l’opera di Kubrick offriva, con la sua Alice che fin dal nome di letteraria memoria si prestava a varcare il limite della pura immaginazione.
Non solo, nella messinscena di Babygirl scorrono venature del thriller erotico degli anni Novanta, da Basic Instinct (Reijn ha recitato per Paul Verhoeven, suo connazionale) a Proposta indecente di Adrian Lyne, di cui si incorporano anche alcune sbavature espressive (la pruderie di trasgressione che sfociavano nell’inautentico, il cinismo nella caratterizzazione dei personaggi), aggirandosi solo nei meandri di quell’estetica patinata e oggi stantia che ha fatto rigettare inevitabilmente la più recente trilogia di Cinquanta sfumature. Ma se esiste un predecessore putativo per Babygirl, si può individuare in Secretary di Steven Shainberg (che ha diretto la Kidman in Fur), per gli accenti di inusitata tenerezza nella morbosa alchimia tra i protagonisti, per il ribaltamento speculare dei ruoli di padrone e sottoposto.
L’inconscio nello spazio refrattario
Eppure Babygirl sa incanalare segretamente un lavoro di sottrazione nei suoi stessi meccanismi di genere smaccatamente conturbanti, scalfendone il voyeurismo maschile, la bidimensionalità del vitalismo del corpo, la monotematica riduzione dell’attrazione alla libidine, attraverso un oculato regime registico che predilige l’aderenza al reale in long take e piani sequenza, un’(auto)ironia sulfurea che gioca con l’eccesso e con la sfrontatezza, la complessificazione del corpo come oggetto filmico che si fa soggetto, grazie alla generosa prestanza di Nicole Kidman, che iscrive nell’interpretazione il nitore del suo stile naturalistico e intimistico d’attrice, ma soprattutto la resilienza e le aporie del suo essere e restare diva nelle morse del tempo.
In una dicotomia tra esterni e interni, dove la controparte maschile elegge i primi come territorio di conquista, la macchina da presa di Reijn incornicia la Kidman tra stipiti, finestre, takes promozionali, moltiplica le linee, i perimetri, le superfici, scolpisce uno spazio che incasella semplificando, frammenta senza frantumare, ingloba l’umano levigandone la profondità, in una scenografia linda, lussuosa, asettica, anonima. Ma due primi piani dell’attrice allo specchio, che coincidono con due sguardi in macchina, sono svelamento di un’identità diegetica (di un personaggio che si affranca dai ruoli del suo vissuto) e fotografia che si fa documentario sullo stato della diva.
La biografia del corpo, l’interiorità dell’icona
Con il volto di algida e classica bellezza che sprigiona un mistero antico ancora dischiuso, Nicole Kidman si consegna all’obiettivo con i segni inevitabili dell’età anagrafica e dei trattamenti estetici che inaspettatamente si fondano e si confondono con il suo personaggio, tra botox e crioterapia. È la presa di potere dell’(auto)fiction sul reale, una declamazione di reticente verità che trova maggior presa drammatica ed empatica rispetto allo sconfinamento nel fantastico e nel grottesco di The Substance di Coralie Fargeat con Demi Moore, grazie al sodalizio tra Kidman/Reijn che è sinergia di visione, manifesto al femminile di intenti.
Dopo le pose civettuole e dark di Da morire, la degradante scarnificazione del sex appeal in Dogville, la languida sessualità di La macchia umana, il lutto scabroso di Birth, la star australiana svetta in nuove corde espressive deflagranti e più sperimentali, tra i chiaroscuri di un personaggio non vinto, ma vulnerabile e confuso, egoista e vile, di indubbia ispirazione alla galleria di outsider di Isabelle Huppert (Presidente della giuria veneziana che le ha assegnato la Coppa Volpi), tra cui quelle di La pianista ed Elle, rispetto a cui però la Kidman sa donare increspature meno cerebrali e distanzianti.

Per gentile concessione di Eagle Pictures
Eros senza civiltà
Si avverte in Babygirl il bagaglio intellettuale del filone teorico inaugurato dalla Feminist Film Theory e dai Gender Studies, che la regista avrà interiorizzato nel suo apprendistato e che pare applicare a tavolino, distillando anche ascendenze di pensiero freudiano sulla sessualità infantile, con rimandi e suggestioni a una regressione fanciullesca di Romy (a causa di un trauma in una setta subìto da bambina) che le valgono appunto l’appellativo di Babygirl da parte del suo partner; un discorso che si insinua nella percezione distorta della femminilità nell’orizzonte del presente, denunciata con intenti femministi non sempre inappuntabili da titoli recenti come Povere creature e Barbie, incentrati su eroine con uno sviluppo psico-sessuale infantile su un corpo di donna.
Forse, però, in questo materiale troppo composito che Halina Reijn non sempre riesce a stratificare con coesione di pensiero, si staglia con più inventiva la messinscena della frizione della sessualità individuale nell’era della società della tecnica. In una rappresentazione verticale della civiltà e gerarchica del potere Babygirl azzera sia il tessuto urbano (New York esiste solo parcellizzata in skyline e pochi scorci stradali) sia il consorzio umano (i contatti sono poco più che convenevoli) e conferisce mobilità sociale solo a macchinari robotici che con le loro traiettorie, per due volte riprese in un campo lungo, paiono essere il beffardo e capovolto correlativo oggettivo dei desideri ingarbugliati, inconfessati e silenziati di donne e uomini. Scrive il filosofo Umberto Galimberti in Le cose dell’amore:
“Nella civiltà della tecnica, Eros si riduce a prestazione e consumo. La passione è regolata da un calcolo che nega il rischio e la vulnerabilità, ossia l’essenza stessa dell’amore”.
Alterità di visione, cinema difforme
Babygirl si consegna quindi al pubblico in varie accezioni, nessuna veramente conchiusa, tutte vagamente imperfette (ad eccezione della performance di Nicole Kidman), ma scandite da una contaminazione audace di idee e strade impervie nella rappresentazione delle pulsioni da instillare interrogativi e smuovere la ricognizione di sé. Frammenti di un discorso più sensuale che erotico, parabola sul consenso nelle sfere del proibito, trasgressiva identificazione di una donna e di una diva, ritratto di una mascolinità ombrosa e sfuggente, controverso sovvertimento dei sensi, che cela dietro lo scudo della nostra ironia il risveglio tenebroso di rimosse consapevolezze.