Elizabeth Taylor: l’ultima diva è il ritratto di una donna tormentata che nell’amore ha provato e riprovato a trovare rifugio. Presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes e disponibile su Now dal 27 dicembre, gran parte del film racconta la vita della diva quando Elizabeth era all’apice della sua carriera. Nanette Burstein, regista del film, struttura il racconto su un prima e un dopo queste registrazioni, passando dalla voce svampita, a tratti timida e infantile a quella disillusa della donna matura.
Elizabeth Taylor si fa carnefice dei suoi tormenti e afferma con tagliente sarcasmo che una vita intera non basterà a ripagare tutti i debiti che ha accumulato. Non che si parli di beni materiali, sia chiaro. Taylor, una delle primissime donne d’affari a Hollywood, fu la prima attrice a essere pagata un milione di dollari per un film (Cleopatra, Joseph L. Mankiewicz, 1964). Al contrario, a pesare sulle spalle dell’attrice sono i debiti morali, le sofferenze che pensa di aver causato agli altri e, in ultimo, anche a se stessa.
Quello che se ne evince è la storia di una vita sregolata senza né capo né coda: una donna mai riconosciuta come attrice di talento, ma come una star del cinema. E di questa demarcazione forte Elizabeth Taylor ne rimarrà affranta per tutta la vita. Costretta in ruoli miserabili, che odiava, che la facevano sentire “come se mi muovessi nella melassa”. Era tutto zucchero e bellezza, secondo critici e detrattori culturali, ma nella sua carriera la grande diva sembrava sobbarcarsi il peso della sua vita privata. Fu giudicata, infine, nella sua volontà di essere felice.

Le registrazioni perdute di Richard Meryman
A un certo punto della sua carriera, appena dopo il divorzio dal suo terzo marito e accompagnata dal quarto (Richard Burton, co-protagonista in Cleopatra ndr.), Elizabeth Taylor decide di raccontarsi a Richard Meryman, un giornalista che ha come obiettivo quello di scrivere un libro. Passeranno anni prima che queste registrazioni vengano scoperte e il tempo e i fatti postumi alle registrazioni hanno permesso a Nanette Burstein di ricostruirne un ritratto reale senza grandi apologie, ma con il riverbero storico di chi non poteva immaginare cosa sarebbe successo.
Il risultato è di ascoltare un personaggio reale, che non ha paura di nascondersi. Elizabeth Taylor è piena di speranza mentre si racconta: ha trovato in Richard un nuovo rifugio, l’ossessiva ricerca di una vita. L’attrice non nasconde la volontà di trovare, nel corso della sua adolescenza e vita adulta qualcuno in grado di “dominarla”, in grado di arginare ciò che il mondo – ancora – non riusciva a capire. Burstein racconta proprio tutto: dall’esordio in Lessie al primo bacio sul set, dall’amicizia con i grandi attori omosessuali di Hollywood ai tormentati amori. Solo su un argomento Taylor decide di tacere: i suoi figli, per la loro privacy in un discorso talmente tanto profondo e moderno che fa pensare al profondo dolore di averli quasi persi.
Poi il racconto si dilata fino agli accenni di presente e rivela l’illusione di una vita felice in cui Taylor sembrava essersi trincerata. L’abuso d’alcol, la droga, il primo personaggio famoso finito in rehab, il ritiro dalle scene e, infine, la rinascita: Elizabeth Taylor diventa ambasciatrice amFAR (AIDS Medical Foundation e National AIDS Research Foundation) dando voce a milioni di vittime, restituendo parte dell’amore che Rock Hudson, Montgomery Clift e Roddy McDowall gli avevano donato. “Senza gli omosessuali non esisterebbe Hollywood”, dichiara Taylor in conferenza stampa, sancendo un punto di svolta nella sua stessa vita, da sempre dettata dalla sua estrema bellezza, ma per la prima volta in grado di veicolare messaggi importanti: da qui il profondo senso di responsabilità.

Elizabeth Taylor: storia di uno spirito femminista
Ci sarebbero molti interrogativi che rimarranno senza risposta rispetto all’infelice destino delle donne che hanno vissuto quell’Hollywood Babilonia di cui parlava Kenneth Anger. In cui la fantasia si trascinava nella vita reale e il solco tra i due mondi diventava talmente invisibile che uno non poteva prescindere dall’altro. Eppure a un certo punto il reale ha chiesto i conti a tutte loro, alcune senza avere la possibilità di poterlo ripagare.
Diventa difficile parlare dell’infelicità di chi dalla vita ha avuto tutto, soprattutto in anni tanto difficili come quelli. Un senso di frustrazione profonda, però, collega le voci del femminile di oggi con quelle che hanno denunciato una profanazione. Forse perché, per prime, hanno subìto e sono rimaste sconfitte da quel maschile egoista, impaurito e quindi minaccioso. In fondo sono le ultime icone (e quindi le prime) che hanno validato un mondo in cui bisognava adeguarsi per non essere espulse o uccise (perché nel deperimento delle grandi dive hollywoodiane non possiamo non considerare, ancora una volta, il terribile voltafaccia della cultura maschilista e patriarcale in cui hanno vissuto).
Ed è per questo che Elizabeth non deve espiare nessuna colpa, vittima dello stesso sistema che solo noi, con la superbia dei contemporanei, riconosciamo come tossico e destrutturante. Allo stesso tempo, tra le righe delle sue parole, si respira l’incredibile donna che Elizabeth Taylor sarebbe diventata se il mondo l’avesse riconosciuta come persona dotata di una ferrea volontà di autodeterminarsi. Nel corso degli anni Taylor è stata vittima dell’immagine che le è stata cucita addosso, snaturandone debolezze e ambizioni.
La regista le restituisce quella dignità con una clemenza di cui la storia, e quindi il mito, l’hanno privata. Non a caso Burstein, in un commuovete fotogramma finale, chiuderà il film con l’iconica foto della diva, mostrando in primo piano la profonda cicatrice che segna il suo collo, poi sempre cancellata nelle post produzioni. E, insieme a quella, ricostruisce parte di quelle lacerazioni che hanno segnato la sua esistenza: rendendo il film uno struggente omaggio alla vita di questa donna incredibile.
