Fra tradizione e modernità, filmati d’archivio e fiction d’autore, semplicità e glamour, danza con vorticosa eleganza Gianni Versace, l’imperatore dei sogni, un docufilm di Mimmo Calopresti, realizzato anche con il contributo della sua Regione Calabria e della Calabria Film Commission, presentato fuori concorso al TFF 41.
Non un documentario sulla moda né un biopic
Che Calopresti ci sappia fare con i materiali documentari, lo si sa dai tempi dei suoi primi lavori, da quando, collaboratore dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio, nel 1985 vinse il primo premio all’allora Festival “Cinemagiovani” di Torino con A proposito di sbavature; poi documentari e cortometraggi all’inizio degli anni Novanta lo portarono a collaborare con la Rai e infine in sala. Il film su Versace, però, “non è un documentario sulla moda – spiega il regista –. E non è l’agiografia acritica, quella che oggi si chiama elegantemente biopic di chi, venuto dal niente, ha costruito un impero”.
Il giovane visionario Versace
Ai filmati di repertorio della Calabria anni Cinquanta, Sessanta e dei primissimi Settanta, si intrecciano infatti le ricostruzioni poetiche dell’infanzia e della giovinezza di un timido eppure già ‘elettrico’ personaggio da romanzo di formazione. È Gianni piccolo (Eugenio Caracciolo), sempre al seguito dell’idolatrata madre dalle mani di fata (Vera Dragone), della quale anticipa e poi riproduce i gesti da sarta per signore della Reggio bene e per l’Opera del Teatro Cilea – che, nella stagione 1954, ospitò Maria Callas.
La crescita di Gianni Versace, un racconto di formazione
Sarà poi Gianni adolescente (il delicato Leonardo Maltese de Il signore delle formiche di Amelio e di Rapito di Bellocchio), trepidante e scalpitante divoratore di cinema (da Pasolini a Bertolucci a Fellini, come si incarica di testimoniare il montaggio di manifesti e sequenze filmiche), filosofia, letture, a guardare la realtà attraverso e oltre il ‘filtro’ dei tessuti (dalle reti da pesca all’organza degli abiti) per realizzare, con le proprie mani, un sogno di modernità. Nel respiro ampio, dai tempi dilatati, del film di formazione, Gianni Versace è già un visionario che scruta il mare verso lo Stretto di Sicilia, da dove sono passati tutti gli eroi greci; non è la tradizione a stargli stretta, quanto piuttosto la scuola, i muri della sartoria di famiglia (che lo hanno formato, ma vanno anche superati), il conformismo della provincia.
Da Reggio Calabria a Milano alla vetta del mondo
Nella realtà asfittica del Sud Italia dell’epoca – indagata anche attraverso immagini di repertorio dei Moti di Reggio scoppiati nel 1970, di cui arriva l’eco nella stanza di Gianni – attraverso le significative sbarre della finestra della sua camera -, il giovane anticipa e si fa portatore, grazie alla propria natura dinamica, curiosa, eclettica, del ritmo che caratterizza il survoltato montaggio delle sfilate, dei servizi fotografici di Richard Avedon, dei balletti contemporanei di Béjart, dei costumi teatrali (suo grande amore) e delle metropoli in cui si muoverà lo stilista adulto, all’apice del successo. Tornano i ritmi pacati della riflessione, della cultura e della profondità di Gianni negli inserti ‘statici’ delle interviste a Carla Bruni, agli amici d’infanzia, alla storica penna del «Corriere della Sera» Adriana Mulassano, al regista Sergio Salerni, con cui Versace ha realizzato le proprie spettacolari e avanguardistiche sfilate.
Gianni Versace: ‘altro’ e ‘oltre’
Ognuno cerca di restituire l’identità di quel ‘giovane straordinario’, insieme a Calopresti, che ricorda come a Reggio tutti abbiano conosciuto Gianni Versace, ma allo stesso tempo nessuno possa dire di averlo fatto profondamente. Quasi fosse una figura ‘altra’ e ‘oltre’, inarrivabile fin da ragazzo, quando anche la propria identità omosessuale (delicatamente suggerita dal film) era parte della sua unicità, al punto da essere al riparo da qualsiasi forma di ghettizzazione.
Film dal montaggio survoltato
Sempre più interessato ai ritratti di personaggi singolari e vincenti per la loro eccezionalità, il regista imprime a tutto il variegato materiale utilizzato e girato un ritmo indiavolato, complici l’entusiasmante colonna musicale, il montaggio di Irene Vecchio, che arriva dal mondo dello spettacolo, e lo sfavillio delle regie per la moda di Salerni, a cui Calopresti ha voluto ispirarsi. La struttura a capitoli, introdotti dalla fanciullesca animazione di un giovane disegnatore calabrese, segna i passaggi del percorso di Gianni, nella sua solitudine visionaria, sempre però accompagnata, nella Reggio del lungomare da lui tanto amato, dai fratelli Santo, Donatella e dai suoi coetanei (la cui recitazione forse un po’ acerba risulta però funzionale a marcare la distanza fra la realtà reggina e il sogno realizzato del mondo rutilante di feste e backstage).
“Non vorrei morire mai”
Attorniato da persone che hanno amato la sua gentilezza e la sua grandezza sarà sempre: sia nel corso dalla vita, come testimoniano le interviste e i documenti televisivi, sia nel momento della tragica e inspiegabile morte nel 1997 a Miami, quando esprimeranno il loro tangibile dolore personaggi altrettanto amati come Lady D, Elton John, Sting.
“Tutto mi interessa, sono un curioso, un onnivoro. Non vorrei morire mai.”
diceva Gianni, e così è stato, in un certo qual modo. Oltre che nelle creazioni di Donatella e nel lavoro di Santo, in tutto il mondo, quello piccolo di Reggio e quello globalizzato, per tutti è come se Gianni ci fosse ancora e per sempre.
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