Dopo il lutto per la morte del giovane marito, divorato da un cancro, Ilaria Alessandro, psicologa, decide di dar vita ad un gruppo terapeutico composto da alcune donne. In Mindsurf, le pazienti, consapevoli che saranno riprese da una telecamera, si raccontano e rivelano, in collegamento online, le proprie fragilità e debolezze. L’obiettivo della psicologa è quello di aiutarle a crescere e a prendere fiducia in loro stesse, grazie all’esperienze collettiva che le porterà a volare in mare sulle tavole del windsurf.
Un doc verboso e celebrativo
Il termine terapia ha origine greca e deriva dal verbo “therapeyo”, e significa curare, guarire. Negli ultimi decenni sono fiorite tecniche eclettiche, tra le più disparate. Anche se mosse da buone intenzioni, le più sono da ritenere scarsamente scientifiche. Lo conferma l’esperienza Mindsurfproposta dalla psicologa Alessandro. La dottoressa mostra le sedute online, dimentica che è pur sempre incauto rendere pubbliche le incertezze di chi cerca di sanare le proprie ferite interne. Manuela, Stefania, Lalla, Barbara si raccontano, leggono le loro riflessioni online (siamo in piena pandemia) e, di tanto in tanto, la psicologa commenta in maniera leziosa e poco empatica le loro riflessioni. Il regista Luca Alessandro dirige questo doc verboso e poco coinvolgente e non offre alla narrazione nessuna via di fuga. La fantomatica mindsurf-terapia è, inoltre, così sullo sfondo, che tocca allo spettatore immaginare in cosa consista realmente. Non resta che rimandare i cinefili ai film che vedono il windsurf protagonista. Da ri-vedere: I cavalloni di Paul Wendkos (1859), Un mercoledì da leoni di John Milius (1978), Blue crush di John Stockwell (2003), Blue crush 2 di Mike Elllot (2011).