Un giorno, Julie (Julie Yaye Binguè Dieng) una giovane donna sente delle voci nella sua testa. E’ l’inizio di un periodo terribile segnato dalla diagnosi di schizofrenia. Seguiranno anni di ospedalizzazione e cure pesantissime. La giovane regista francese Mia Ma, sua cara amica, nel documentario “Fréquence Julie” premiato recentemente all’ultimo Faito Doc Festival.
E’ un’opera lenta, come il tempo che passa Julie a casa da sola. Mia descrive le sue lunghe giornate passate tra tante sigarette e messaggi ascoltati su un divano rosso.
Quello che è palese è la noia della donna, che tuttavia con i suoi tempi ritrova la voglia di uscire e di indossare dei bei vestiti . La regista (che non si vede mai ed è solo una voce fuori campo) le dice che è bella. Ed è vero, perché c’è tanta bellezza in questa donna che per lo stato è una disabile all’80% priva di ogni supporto psicologico.
Non c’è alcuna autocommiserazione nel documentario e nell’atteggiamento della regista attenta a non toccare mai tasti troppo intimi. La difficoltà di un progetto così delicato è, infatti, quella di indulgere nel dolore, ma l’autrice riesce nell’impresa girando un documento prezioso a servizio non solo di Julie ma di tutti quelli come lei.
Questo film è nato da una preoccupazione per un amica che stava male. Mi sono lasciato trasportare dalla mia voglia di essere regista di filmala così come l’ho vista io: vale a dire come una star. Amicizia, preoccupazione e desiderio di sublimazione hanno lavorato insieme. All’interno di questa triangolazione, c’era una necessità che emanava di Julie, che l’intimità tra me e lei mi ha permesso di decifrare: ovvero quella di raccontare la sua storia. Questa esigenza infatti era lì da molto tempo. Il mio unico potere era quello dell’amicizia e quello di saper usare una videocamera. L’ho afferrato, ed era come stare su un filo teso tra il mio ruolo di amico e quello di regista durante tutto il processo cinematografico.
La chiave della rinascita della protagonista è nella sua famiglia di Julie e i suoi amici. E tra questi spicca la regista che nel raccontare lo stigma sociale della disabilità mentale con rigore e senza giudizio alcuno la supporta emotivamente.
La delicatezza con cui è trattato un tema così complicato come questo rende questo film un vero gioiellino, anche se non di facile fruizione.
Julie Yaye Bigué Dieng regge la scena per più di un’ora, dando quasi la sensazione di stare sola con lo spettatore. Bello il finale che mostra una donna nuova che si è ripresa la sua vita lasciandosi alle spalle i fantasmi del passato.