Su MUBI da qualche tempo è disponibile il documentario This much I know to be true, la seconda parte di un dittico che il talentuoso Andrew Dominik, regista del recente e divisivo biopic su Marilyn Monroe, Blonde, ha inteso dedicare a uno dei suoi musicisti del cuore: l’australiano Nick Cave.
‘This much I know to be true’. Un fortunato sodalizio per rinascere verso nuovi stimoli
Dopo il sofferto One more time with feeling (2016), che si presentava al pubblico come una sorta di dignitosa elaborazione del lutto da parte del grande musicista a seguito della scomparsa del figlio maggiore Arthur, e a cui sono dedicati almeno due album come Bad seed e il recente Ghosteen, questo secondo capitolo dedicato da Dominik a Nick Cave ce lo descrive mentre riprende il suo mestiere di creatore di musica e canzoni.
Dopo essersi curiosamente dedicato alla ceramica, forte di una qualifica ufficiale in tale comparto non meno artistico di quello per cui è noto in tutto il mondo, e di una predisposizione per le creazioni a tematica singolarmente e sinistramente satanica, il musicista torna, con sollievo di molti, alla sua passione più radicata: la composizione musicale.
Il documentario infatti, dopo l’iniziale simpatica divagazione sopra accennata, si concentra ad approfondire le radici di un binomio musicale molto interessante, avvenuto con l’incontro da parte di Cave con il musicista, pure lui australiano, Warren Ellis.
Ellis, che ha collaborato anche con lo stesso Dominik tra gli autori della colonna sonora del suo L’assassino di Jesse James da parte del codardo Robert Ford nel 2007, è divenuto un assiduo collaboratore delle più recenti creazioni artistiche di Cave.
L’incontro tra questi due giganti, che dà vita ai due album già citati e a Skeleton Tree, si traduce, visivamente e nell’ascolto, in una esperienza quasi mistica, che si sviluppa attraverso le sonorità completamente differenti ottenute attraverso i timbri vocali dei due, in grado di creare un contrasto che porta lo spettatore verso un’esperienza davvero unica.
This much i know to be true – la recensione
Nick Cave, elegante sessantacinquenne perennemente in abito blu stilosissimo e stirato alla perfezione, torna ad aprirsi con lo spettatore e a raccontare come i pensieri che lo assillano e coinvolgono finiscono per far parte del suo modo di fare e creare musica.
Il senso della fine, della morte e del giudizio è sempre una costante, a partire da quel curioso incipit che ce lo restituisce come una sorta di “ceramista del diavolo”.
Se creare arte è sempre e inevitabilmente un momento complesso, che richiede concentrazione e la giusta carica emotiva, vedere i due artisti in un progetto comune senza per questo distaccarsi ognuno dal proprio stile e dalle proprie caratteristiche ed estensioni vocali, crea nello spettatore un sentimento che è quanto mai lontano dall’angoscia o dalla tensione.
Guardando e ascoltando il film si entra piuttosto a far parte integrante di un’armonia e di una atmosfera complice e ispirata, che appaga ed insieme incanta.
Per qualche minuto appare anche una ironica e consapevole Marianne Faithfull, amica e collaboratrice di entrambi i musicisti, che costituisce, col suo semplice apparire, una chicca esclusiva di questo emozionante documentario, che ambisce a cogliere l’attimo, ovvero quella scintilla creativa che rende l’autore finalmente appagato su ciò che sta portando alla luce.