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FESTIVAL DI CINEMA

9. Ravenna Film Fest Nightmare: “RABIES” di Aharon Keshales e Navot Papushado

Fra i lungometraggi in concorso desta particolare interesse “Rabies” (2010), opera prima israeliana che testimonia l’affacciarsi dei giovani registi a un genere non consueto per questa nazione

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La sala del Cinema Corso, in cui si svolge il Nightmare 2011, è gremita: non solo spettatori ravennati, ma cultori di tutt’Italia affollano fin dalle prime serate quest’importante appuntamento con il lato oscuro del cinema internazionale d’autore. Fra i lungometraggi in concorso desta particolare interesse Rabies (2010), opera prima israeliana che testimonia l’affacciarsi dei giovani registi a un genere non consueto per questa nazione. Sebbene il titolo evochi una malattia che potrebbe essere trasmessa all’uomo dalla razza canina, lo splendido esemplare di cane lupo cui è dedicata una lunga inquadratura iniziale è soltanto una vittima, per l’esattezza la prima, della feroce mattanza all’aria aperta che insanguinerà fino alla fine del film una riserva naturale boschiva.

La foresta come luogo maledetto è una location che ha già ispirato tanti autori di talento alle prime armi e con basso budget, dal celeberrimo The Blair witch project (1999) all’italiano Morituris (2011), passando per Cabin fever (2002). La differenza è che qui, a rendere il luogo insalubre per i malcapitati avventori, non è l’elemento fantastico che assume le sembianze di una strega o dei gladiatori redivivi, e nemmeno l’ineluttabile fatalità di un contagio: In Rabies, il corso degli eventi è sempre determinato dall’elemento umano. La nefasta presenza di campi minati, tombini, paletti metallici e tagliole altro non è che la contaminazione dell’ambiente naturale ad opera dell’uomo e la morte arriva esclusivamente per mano di qualcuno, talvolta addirittura per mano amica, armata di pietra o di altro oggetto contundente facilmente reperibile sul posto. A proposito di mani, la regia di questo film ne conta ben quattro: Quelle di Aharon Keshales e di Navot Papushado, che guidano con sicurezza ed efficacia le peripezie dei protagonisti, dai primi minuti completamente bui e affidati alle sole voci, fino alla sarcastica scena finale che si svolge ai margini del bosco, durante i titoli di coda.

Il gruppo di personaggi che lascia ogni speranza entrando nel luogo infausto annovera giovani sportivi in abiti tennistici, una squadra di poliziotti, un ranger e la sua compagna, un fratello e una sorella, un killer psicopatico. Ma l’ultimo nominato non è necessariamente il più pericoloso. Curiosamente, la sceneggiatura riserva un ruolo rilevante anche ai dialoghi che si svolgono al telefono o tramite walkie talkie, spesso le comunicazioni interpersonali più autentiche, quelle che i protagonisti non trovano il modo di farsi vis à vis. L’elettronica di consumo è però un’alleata inaffidabile dell’uomo: Lo pianta in asso lasciandolo senza campo (e senza scampo) nel momento del bisogno, lo costringe ad agire sconsideratamente pur di cancellare un messaggio imbarazzante dalla segreteria telefonica ed infine sembra addirittura deriderlo, allorchè consegna un annuncio di paternità ad un cadavere in corso di seppellimento. Nell’insolito finale, i registi sembrano fermarsi a pochi passi dal capolinea, per lasciare alla fantasia dello spettatore la conclusione (o meno) del massacro.

Lucilla Colonna

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