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Tenebre, Suspiria, Profondo Rosso and the best of Dario Argento
Dario Argento nato a Roma il 7 settembre 1940 è un regista, sceneggiatore e produttore italiano. Conosciuto non solo in Italia ma anche in Francia, Giappone e Stati Uniti come il Maestro del brivido, avendo dedicato al cinema horror e thriller quasi tutta la propria produzione. Tra i suoi lavori più noti la Trilogia degli animali (composta da L'uccello dalle piume di cristallo, del 1970, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio, entrambi del 1971), Profondo rosso (1975) e la trilogia de Le tre madri (composta invece da Suspiria, del 1977, Inferno, del 1980, e La terza madre, del 2007). In occasione della uscita in sala di Profondo Rosso ecco un approfondimento aggiornato del regista.
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TaxidriversIn occasione della uscita di Occhiali Neri, proponiamo il meglio dei film di Dario Argento da vedere o rivedere. La filmografia di Dario Argento é fatta di autentici capolavori che rimarranno nella storia del cinema. Qui ne trattiamo alcuni indispensabili per il cinema italiano e per il genere horror internazionale.
Profondo Rosso è una riflessione sulla natura dell’immagine cinematografica e sul rapporto complesso che la lega alla psiche dello spettatore, una meditazione sul rimosso che viene tematizzata e ruota, dunque, su se stessa in modo straordinariamente armonico.
Taxi drivers
Profondo rosso, un film del 1975 diretto da Dario Argento. L’opera segna, all’interno del percorso artistico del regista, il passaggio fondamentale tra la fase thriller, alla quale appartengono L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio (il film doveva infatti intitolarsi La tigre dai denti a sciabola per continuare la saga zoonomica), e quella horror cominciata con Suspiria.
Fin dalla sua uscita nelle sale, avvenuta il 7 marzo 1975, la pellicola ebbe un ottimo successo di pubblico: si segnalano i terrificanti effetti speciali, cui mise mano anche Carlo Rambaldi, e la musica del gruppo rock progressive dei Goblin. Alcune composizioni sono firmate anche dal pianista jazz Giorgio Gaslini.
Profondo rosso nasce, come altri film di Argento, durante le battute finali della realizzazione della sua opera precedente, l’atipico Le cinque giornate. L’idea di base, la medium che, durante una seduta, percepisce i pensieri di un assassino, risale addirittura ad una prima stesura di Quattro mosche di velluto grigio. Argento lavora febbrilmente sulla sceneggiatura ma, insoddisfatto del risultato, si fa aiutare da Bernardino Zapponi, tanto che alla fine ne risulta una sceneggiatura a quattro mani. Zapponi, intervistato, si attribuisce l’idea di aver voluto rendere molto fisico l’orrore del film e di legarlo ad un contesto realistico e comune, mentre attribuisce ad Argento il lato fantastico della vicenda (la medium, i fantasmi della villa, il disegno della parete, lo scheletro nella stanza murata, lo svolgimento degli omicidi). La scelta di Clara Calamai (una delle maggiori dive del cinema italiano durante il ventennio fascista) per interpretare l’assassina non è casuale: Argento voleva infatti un’attrice anziana, un tempo famosa ma adesso dimenticata, in parte per la lunga assenza dallo schermo, in parte perché passata di moda. Nella scena in cui Marc Daly si reca per la prima volta in casa della madre di Carlo, le foto che questa gli mostra non sono delle immagini fittizie ma sono proprio le vere fotografie di Clara Calamai, che la ritraggono sui set dei suoi vecchi film degli anni trenta e quaranta. Profondo rosso fu l’ultima pellicola interpretata dall’attrice. Con David Hemmings, Daria Nicolodi, Clara Calamai, Macha Méril, Eros Pagni, Giuliana Calandra, Gabriele Lavia.
Sinossi
Marc Daly, un giovane pianista, è testimone dell’omicidio di una parapsicologa, ma non sa individuare l’assassino. Si mette a indagare per conto proprio, aiutato dall’amica Gianna, ma ben presto la situazione si fa intricatissima: tutte le persone che potrebbero aiutarlo nella soluzione del mistero rimangono vittime dell’efferato killer.
Profondo rosso è il primo vero ‘classico’ della carriera di Dario Argento. Baciato dal successo già al primo film, L’uccello dalle piume di cristallo(1970), il regista romano aveva proseguito nel segno di una definizione paternalistica e riduttiva (sostanzialmente quella di ‘Hitchcock all’italiana’) con altri due thriller piuttosto simili al primo, grazie ai quali si comporrà la cosiddetta ‘trilogia degli animali‘ (Il gatto a nove code e Quattro mosche di velluto grigio, entrambi del 1971). L’esigenza di un cambiamento e di un riconoscimento autoriale lo porta quindi, per la prima e unica volta, a uscire dai generi a lui più congeniali. Ma Le cinque giornate (1973) è un fallimento sotto tutti gli aspetti e Argento sente il bisogno di dimostrare il proprio valore, recuperando e sistemando i fili del discorso lasciato in sospeso. Scritto con lo sceneggiatore Bernardino Zapponi ‒ caro a Federico Fellini‒ Profondo rosso risulterà essere una sorta di catalogo stilistico e tematico delle ossessioni del suo autore, nonché una brillantissima maniera per chiudere i conti con il passato e gettare un ponte verso la successiva evoluzione in chiave horror. Si comincia proprio dall’omaggio hitchcockiano, con la coppia assassina composta da madre e figlio ‒ legati da morbosissimo affetto ‒ e le reminiscenze di traumi infantili che perseguiteranno le generazioni a venire: come dire, si comincia citando Psycho e Marnie (1964). Immediatamente, però, la psicanalisi generica del maestro viene a confondersi nelle torbide acque della parapsicologia, e l’impulso omicida rivela un fondo soprannaturale di stampo diabolico. Prima ancora delle streghe di Suspiria (1977) e delle sataniche apparizioni di Inferno (1980), l’assassino di Profondo rosso, ancorché apparentemente in carne e ossa, possiede doti di ubiquità, onniscienza e implacabilità del tutto sovrumane (specie se pensiamo che si tratta di un’anziana e inerme signora). Il teatro delle sue imprese, per le quali Argento dispiega tutto il suo talento figurativo e la sua immaginazione, è quello di una Roma spettrale, resa ancor più perturbante da contaminazioni torinesi (altra città in cui si svolgono le riprese del film), cui si aggiungono vecchie ville diroccate e interni postmoderni, il tutto condito da frequenti riferimenti pittorici all’iperrealismo di Edward Hopper, al tardo espressionismo di Edvard Munch o alla forzata naïveté della pittura da strada contemporanea. Dentro a questo scenario, ritmato dalla musica di Giorgio Gaslini e dei fedeli Goblin che riprendono nenie infantili e le sviluppano elettronicamente in direzioni orrorifiche, c’è una messa in scena sontuosa e barocca. L’omicidio diventa occasione di performance fantasmagoriche (i riferimenti al precinema ‒ ad esempio nelle ombre cinesi del prologo ‒ sono una costante del cinema di Argento) che finiscono per sublimare il materiale grandguignolesco in virtuosismo registico, grazie anche alle interpretazioni di attori, per lo più di provenienza teatrale, di altissimo livello. Fra essi spicca, naturalmente,David Hemmings, citazione vivente da Blow- up di Michelangelo Antonioni che costituisce il principale punto di riferimento di questo film. Prima di tutto, infatti, Profondo rosso è la storia di un uomo che assiste casualmente a un avvenimento, sa di avere visto qualcosa di essenziale ma, non riuscendo a far affiorare il dettaglio decisivo, indaga per colmare una lacuna della propria memoria fotografica. Una riflessione sulla natura dell’immagine cinematografica e sul rapporto complesso che la lega alla psiche dello spettatore, riflessione sul rimosso che viene tematizzata e ruota dunque su se stessa in modo straordinariamente armonico. Per questo il film ha dato vita a una serie impressionante di tentativi di imitazione ‒ alcuni peraltro ottimi (da La casa dalle finestre che ridono, Pupi Avati 1976, a Shock, Mario Bava 1977) ‒ e ha indotto il suo autore a realizzarne una sorta di sequel mascherato a distanza di circa venticinque anni (Nonhosonno, 2001).
Un autentico capolavoro dell’alta tensione che ha reso a tutti gli effetti maestro del genere colui che ci avrebbe regalato due anni più tardi Suspiria. Colui che già aveva provveduto a guadagnarsi nientemeno che la nomina di degno erede di Alfred Hitchcock grazie alla sua cosiddetta “trilogia degli animali”. Una trilogia costituita dai thriller da L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio. Una trilogia per la quale, però, non si spinse oltre come lo fece nel caso di Profondo rosso, testimonianza del suo progressivo avvicinamento all’horror.
E tutto parte dal pianista Marcus Daly interpretato dal David Hemmings di Blow-up, il quale s’improvvisa detective dopo essere stato testimone involontario dell’omicidio di una sensitiva. Fornendo l’azzeccato pretesto per favorire il progressivo sviluppo di un teso intreccio splendidamente illuminato dalla fotografia di Luigi Kuveiller ed efficacemente accompagnato dalle inquietanti musiche per mano di Giorgio Gaslini e i Goblin di Claudio Simonetti.
Un teso intreccio che ha finito in breve tempo per consentire a Profondo rosso di trasformarsi in un vero e proprio classico della celluloide tricolore. Senza alcun dubbio, il miglior italian thrilling che sia mai stato concepito.
Un risultato il cui merito va riconosciuto anche ai non pochi stratagemmi escogitati già in fase di sceneggiatura dal regista insieme al grande Bernardino Zapponi. A cominciare dalla scelta di infarcire la vicenda di continui rimandi al pauroso universo infantile (dalle bambole ai disegni naif). Per non parlare della lodevole intuizione di privare di logica diverse situazioni, al fine di ottenere lo spaventoso impatto emotivo. Non a caso, si pensi a tutt’altro che credibili momenti come quello in cui il pupazzo sghignazzante entra improvvisamente nella stanza di Glauco Mauri. Sono proprio quelli che hanno permesso all’operazione di raggiungere lo status di più alta vetta artistica toccata dall’autore di Tenebre.
Uno status che lo ha portato ad influenzare gran parte del cinema dell’orrore a seguire, tanto da essere più volte imitato, anche oltreoceano. Sarebbe sufficiente citare l’uccisione con acqua bollente di Giuliana Calandra, riproposta sei anni più tardi in Halloween II – Il signore della morte di Rick Rosenthal. Per non parlare dei geniali risvolti narrativi e degli impressionanti e allora innovativi momenti splatter.
Al servizio di oltre due ore di visione che, come da tradizione argentiana, non fanno neppure a meno di ironici personaggi di contorno. Ne è un perfetto esempio il commissario Calcabrini dal volto di Eros Pagni. Soltanto uno dei fondamentali nomi rientranti nel validissimo cast, comprendente Gabriele Lavia, Daria Nicolodi e la veterana Clara Calamai.
L’uccello dalle piume di cristallo, il primo film diretto da Dario Argento
Guardando L’Uccello dalle Piume di Cristallo, a distanza di tanti anni e con la filmografia argentiana ben conosciuta, non si può non rilevare come il film non abbia perso la sua potenza espressiva e il forte impatto sullo spettatore. Il tutto splendidamente accompagnato dalla colonna sonora di Ennio Morricone e dalla fotografia di Vittorio Storaro.
L’uccello dalle piume di cristallo, un film del 1970, il primo diretto da Dario Argento, che dell’opera ha firmato anche soggetto e sceneggiatura, liberamente ispirata al romanzo La statua che urla (The Screaming Mimi) di Fredric Brown.
Il film è il primo episodio della Trilogia degli animali diretta dal regista.
Interpretato da Tony Musante, Suzy Kendall, Enrico Maria Salerno, Eva Renzi, Mario Adorf. Bernardo Bertolucci aveva avuto l’incarico di far realizzare un film tratto dal romanzo La statua che urla. Conosceva molti giovani promettenti. Per l’adattamento del romanzo al grande schermo scelse l’allora quasi sconosciuto Dario Argento, ex critico cinematografico e sceneggiatore con il quale aveva collaborato per la sceneggiatura di C’era una volta il West.
Argento si impegnò moltissimo in fase di scrittura, e la storia che ideò cominciò ad appassionarlo al punto tale che decise a mano a mano di modificarla, modellandola in base alle sue fantasie e alle ispirazioni oniriche e inquietanti. Terminato il lavoro, Argento iniziò a proporre a vari produttori il soggetto, ma il copione rischiava sempre di essere modificato od attribuito a sceneggiatori dal nome già affermato. Così, aiutato da suo padre Salvatore, Dario Argento fondò la società di produzione autonoma Seda Spettacoli, con la quale finanziò e diresse di persona questa storia, alla quale teneva moltissimo per tutto l’impegno personale che aveva profuso nello scriverla.
Sinossi
A Roma un giovane scrittore americano, Sam Dalmas, assiste all’accoltellamento di una donna. Saputo che forse si tratta di un serial killer che ha già tre omicidi alle spalle, Sam inizia indagini personali. L’assassino lo prende di mira: in extremis la polizia salva Giulia, la ragazza di Sam; quando poi lo scrittore-detective sembra aver risolto il caso, non manca una sorpresa finale mozzafiato.
Ne L’uccello dalle piume di cristallo appaiono già rilevabili quegli elementi basilari che sono i mattoni fondamentali dei thriller argentiani, quelli della stagione più felice del regista romano. Innanzitutto l’inspiegabilità di una serie di feroci delitti, collegati fra di loro da un filo logico che non conduce a banali motivi di opportunismo (soldi o vendette personali) ma ad un evento traumatico sepolto nel passato che una casualità ha portato a galla determinando il crollo della psiche dell’assassino. Poi il fatto che il protagonista dell’indagine non sia un poliziotto ma una persona normale, che si ritrova coinvolta suo malgrado quale testimone e che viene ossessionato da un particolare “fuori logica” all’apparenza insignificante ma che si rivelerà la chiave per la soluzione del caso. E quindi un assassino spietato, irriconoscibile, un concentrato di malvagità nascosta, quasi soffocata, sotto abiti neri e privi di aperture, capace di tali efferatezze da far dubitare della sua appartenenza al genere umano. L’assassino in effetti appare quasi come un essere soprannaturale in grado di stanare la sua preda in ogni momento, di annichilirla con la sua sola presenza. Infine la capacità di prendere un luogo reale e trasfigurarlo. La Roma che fa da sfondo alla storia è tutt’altro che una città solare, appare come un luogo cupo e pieno di insidie.
Per Profondo Rosso Argento arriverà a mescolare le immagini di tre città diverse arrivando a creare un luogo irreale (anche se a Torino va riconosciuto una sorta di primato, non fosse altro che per la splendida scena della fontana, una delle più belle del cinema italiano, e per la villa maledetta).
Guardando L’Uccello dalle Piume di Cristallo oggi, a distanza di tanti anni e con la filmografia argentiana ben conosciuta, non si può non rilevare come questo non perda un grammo della sua potenza espressiva e del suo impatto sullo spettatore, il tutto splendidamente accompagnato dalla colonna sonora di Ennio Morricone.
Oltre alla bravura tecnica e a una buona sceneggiatura che rinnova lo schema del giallo cinematografico, ciò che contraddistingue in positivo il film è che il regista sapeva dare a queste sue prime produzioni un respiro internazionale che le ponevano più avanti di quanto facessero altri suoi colleghi, forse con la sola eccezione di Mario Bava. Oltre alle suggestioni hitchcockiane che in un film del genere sono inevitabili, c’è anche molto Fritz Lang e qualche eco del Blow up di Michelangelo Antonioni, ma rielaborati con intelligenza in un prodotto che, pur non rinunciando ad una confezione curata e accattivante, si preoccupa anche della sostanza, di riflessioni sui pericoli insiti nella visione. È un thriller, insomma, ma c’è anche qualcosa di più, e il pubblico lo capì da subito, decretandone un notevole successo non solo in patria. Nel cast un Tony Musante, molto più spigliato che in Anonimo veneziano, e un infallibile Enrico Maria Salerno nella parte dell’ispettore; non male la galleria di personaggi secondari. E un esordiente che poteva permettersi i contributi tecnici di Vittorio Storaro ed Ennio Morricone aveva comunque una marcia in più.
Opera di Dario Argento: un’acutissima riflessione sulla questione dello sguardo e sull’essenza dell’orrore al cinema
Oltre ad essere un film di straordinaria fattura, Opera è innanzitutto una riflessione profondissima sull’essenza dell’orrore al cinema. Dario Argento nel 1987 avviò una significativa meditazione sulla questione dello sguardo, che sarebbe bene cogliere fino in fondo.
Senza cincischiare o fare eccessivi preamboli, Luca Biscontini si affretta ad affermare che Opera, film di Dario Argento del 1987 (successivo a Phenomena), è una pellicola che non può essere assolutamente mancata. Chi l’ha vista, e sono tantissimi, deve senza dubbio ri-visionarla nella bellissima edizione in blu ray messa a disposizione da CG Entertainmet; chi, colpevolmente, non ne avesse ancora fruito, è tenuto a non lasciarsi sfuggire l’occasione di fare un’esperienza cinematografica intensa e difficilmente dimenticabile. Non stiamo qui a raccontare l’antefatto della nascita del film (tutto è assai ben documentato nell’intervista-fiume fatta a Dario Argento da Nocturno, contenuta nella ricchissima sezione extra del blu ray), piuttosto preferiamo agevolare immediatamente uno sprofondamento nel film, tratteggiando ciò che di esso entusiasma e induce a consigliarne la visione.
Argento, probabilmente mosso dal desiderio di testare fino in fondo la propria abilità di regista, non esita a costruire sequenze di grande complessità tecnica, e l’utilizzo forsennato della steady-cam (una della prime usate al cinema) dà ottimi risultati, fornendo allo spettatore la possibilità di essere risucchiato nel vivo dell’azione. Frequenti, in questo senso, sono le soggettive della protagonista, la quale deve spesso sfuggire agli agguati che il killer della storia non cessa di ordire ai suoi danni. Ma, al netto delle pur tante trovate, su cui si ci potrebbe molto soffermare, ciò che preme sottolineare è, ancora una volta – e solo con il cinema dei grandi registi ciò è possibile –, la riflessione, o meglio la declinazione visiva, che Argento, il quale scrisse il film insieme al fido collaboratore Franco Ferrini, fece, non sappiamo, a dire il vero, quanto consapevolmente (o meglio, fino a che punto), della questione dello sguardo. Betty, la protagonista, interpretata una discreta Cristina Marsillach, attrice spagnola attiva più che altro negli anni ottanta, è sottoposta, come è ormai arcinoto, a una specifica tortura dal suo aguzzino: costui non vuole ucciderla, ma ogni volta, applicandole degli spilli intorno alle palpebre, la obbliga ad assistere agli efferati omicidi di cui è responsabile.
Senza entrare nello psicologismo, che pure costituisce una chiave di volta per comprendere le dinamiche del film, è interessante notare che qui il regista convoca, evidentemente, lo spettatore a immedesimarsi totalmente nella giovane donna, costringendolo, assieme a lei, a vivere la spiacevolissima situazione di non poter “abbassare lo sguardo” di fronte alle inaudite violenze che si consumano davanti ai suoi occhi. L’orrore non rimane fuori campo, ma viene mostrato con una ferocia aggiuntiva, che stimola non poco una seria riflessione sullo statuto del visibile, non solo in campo cinematografico, ma anche, tout court, estetico. Il genere horror realizza, in un certo senso, il contrario, o meglio il rovesciamento, di quello che dovrebbe essere il compito del cinema, il quale non consiste, evidentemente, nell’imbellettamento dell’orrore: quest’ultimo dovrebbe essere relegato in un fuori campo assoluto (non come avviene, per esempio, nell’osannato Schindler’s List di Steven Spielberg), da dove possa, eventualmente, riverberare in forma spettrale. La volontà, invece, di farne l’oggetto principale dell’attenzione rivela, come si notava poc’anzi, il desiderio di mettere in atto un rovesciamento (etico ed estetico) di cui lo spettatore è volutamente complice.
È come se non si volesse smettere – diciamo una banalità, ma il meccanismo è esattamente questo – di rivivere quelle ancestrali paure che hanno segnato l’infanzia. Ma ciò che di primo acchito potrebbe sembrare un processo che innesca una pericolosa involuzione, in realtà, a ben guardare, è anche ciò che permette di riconnettersi con la parte più innocente della propria anima, in un movimento che potrebbe essere definito, mutuando il gergo deleuziano, ‘ritornar-bambino’: retrocedere, insomma, ad una fase precedente all’instaurazione dell’autorità e del potere, in cui è ancora possibile esperire una libertà fatalmente interdetta al mondo adulto. Gli occhi sanguinano, ma è una pena che può essere sostenuta, in vista dei nuovi orizzonti che vengono, tramite tale supplizio, magnificamente aperti.
Ecco, allora, che Opera incarna, in questo senso, in maniera esemplare, l’essenza del cinema horror: al netto dello spavento che effettivamente provoca il film, ciò che conta è che in esso è mostrato, sviscerato, il legame visivo che s’instaura tra spettatore e immagine (chi guarda delira con la protagonista, laddove insieme ad essa ‘vede’ l’orrore; è come se venisse risucchiato in un processo allucinatorio che, almeno per la durata della pellicola, produce una sospensione della consueta percezione della realtà). In conseguenza di ciò, quindi, l’orrore non costituisce più l’ennesima spettacolarizzazione ordita colludendo con una malsana bulimia contemporanea dello sguardo, piuttosto diviene il mezzo attraverso cui retrocedere, stavolta utilizzando il gergo di Alain Badiou, dalla rappresentazione alla presentazione, risalendo ad un momento precedente alla cristallizzazione mortifera dell’ordine simbolico.
Insomma, oltre ad essere un film di straordinaria fattura, Opera è innanzitutto una riflessione profondissima sull’essenza del cinema dell’orrore, a dimostrazione di quanto il suo autore meriti più che mai l’appellativo di maestro. Riuscire a veicolare una cogitazione così significativa, intrattenendo al tempo stesso amabilmente, fornisce l’idea della statura di regista di Dario Argento, che, ne siamo persuasi, non dovremmo mai relegare, compiendo un madornale errore, nel ghetto del cinema di genere. Egli, a partire da una sua naturale tendenza, ha elaborato un’idea di cinema (e non un cinema di idee) di cui non dovremmo mai smettere di essergli grati.
Suspiria, il capolavoro di Dario Argento che ha compiuto 44 anni
Suspiria, un film del 1977, diretto da Dario Argento, ispirato al romanzo Suspiria De Profundis di Thomas de Quincey, e interpretato da Jessica Harper, Stefania Casini, Flavio Bucci, Alida Valli e Miguel Bosè. Il film è il primo capitolo della trilogia delle tre madri ed ha avuto due sequel: Inferno (1980) e La terza madre (2007). In occasione del 40º anniversario, il film è stato restaurato in 4K ed è tornato al cinema il 30, 31 gennaio e 1º febbraio 2017, distribuito da QMI/Stardust e Videa.
Sinossi
Susy va a Friburgo per iscriversi a un’accademia di danza, ma un paio di compagne vengono massacrate in maniera orripilante. Sull’edificio che ospita la scuola, una vecchia costruzione isolata e immersa in un bosco, grava un’antica maledizione e la direttrice sembra essere in comunicazione con l’aldilà. O meglio, con una strega dura a morire.
Il film è considerato un grande successo di Dario Argento, dopo Profondo rosso, capolavoro del 1975 interpretato da David Hemmings, Gabriele Lavia, Macha Méril e Daria Nicolodi. Il regista ha dichiarato che l’ispirazione iniziale per il film nasce da un viaggio da lui compiuto attraverso le “capitali magiche europee” (ovvero Torino, Lione e Praga) e alla visita della Scuola di Waldorf fondata da Rudolf Steiner e situata vicino Basilea nei pressi del centro del “Triangolo Magico” formato dalla sovrapposizione dei confini di tre stati (Francia, Germania e Svizzera).
La fotografia del film ad opera di Luciano Tovoli (mentre la scenografia è di Giuseppe Bassan) è caratterizzata dall’uso di lenti anamorfiche e luci ad arco davanti alle quali sono state poste stoffe colorate (al posto della comune gelatina) in modo da poter essere avvicinate il più possibile ai volti degli attori dando l’impressione che i colori fossero stati gettati come vernice sui loro volti: questo metodo artigianale ha contribuito ad accentuare il tono fantastico della pellicola. Il tipo di pellicola impiegata è una Kodak da 30-40 ASA a bassissima sensibilità: richiedeva pertanto moltissima luce per essere impressa ma aumentava nettamente la profondità di campo delle immagini.
Queste ultime di conseguenza presentano dei colori molto accentuati (dal rosso scarlatto al blu profondo, dal verde smeraldo al giallo ocra): questo è il risultato dell’uso di processi di imbibizione, i cui effetti erano già stati sperimentati in pellicole quali Il mago di Oz e Via col vento. Suspiria è stata, infatti, una delle ultime pellicole a utilizzare queste tecniche ai fini della fotografia e del formato Technicolor, oramai in via di estinzione anche a causa degli elevati costi che il sistema ingenerava. Argento e Tovoli riuscirono a trovare l’ultima macchina di sviluppo ancora in funzione agli stabilimenti Technicolor di Roma; il macchinario, una volta dismesso, fu venduto ad acquirenti cinesi. Grazie a tale tecnica, il film assume un misterioso fascino. Il regista ha dichiarato che a ispirarlo cromaticamente fu la visione di Biancaneve e i sette nani e che per avvicinarsi ai colori forti di tale pellicola la visionò attentamente con Tovoli; altro fondamentale riferimento stilistico fu il cinema espressionista tedesco per il suo peculiare utilizzo di simbolismo e contrasto visivo. Il direttore della fotografia ha dichiarato che richiese ad Argento di fare i trucchi visivi il più direttamente in lavorazione e non in post-produzione per renderli efficaci e mantenere un tono sperimentale alla Méliès. Argento ha aggiunto che la sua sfida personale era quella di non volere fare neanche due inquadrature uguali in tutto il film perciò da parte sua e di Tovoli ci fu un enorme sforzo nella scelta del tipo di immagini da utilizzare (lavorando con storyboard e shots list, cioè la lista di tutte le inquadrature possibili).
La terza madre è un film horror del 2007, diretto dal regista Dario Argento e con protagonista Asia Argento. Il film è il capitolo conclusivo della saga de Le tre madri di cui fanno parte Suspiria (1977) ed Inferno (1980)
La terza madre è un film horror del 2007, diretto dal regista Dario Argento e con protagonista Asia Argento.
Il film è il capitolo conclusivo della saga de Le tre madri di cui fanno parte Suspiria (1977) ed Inferno (1980), ovvero la storia di tre streghe sorelle, madri degli inferi: Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimarum. Questo film si concentra di più sulla battaglia personale di Sarah Mandy contro l’ultima delle tre streghe, Mater Lacrimarum.
Il progetto di questo film risale agli anni settanta, quando Dario Argento decise di realizzare la trilogia delle Tre Madri. L’ispirazione arrivò quando il regista lesse una frase del libro Suspiria De Profundis di Thomas De Quincey nella quale l’autore dichiara di voler scrivere un libro sulla storia delle tre madri degli inferi: Mater Suspiriorum, Mater Lacrimarum e Mater Tenebrarum.
Il teaser trailer de La terza madre è stato distribuito in testa al film Grindhouse – A prova di morte di Quentin Tarantino.
La colonna sonora del film è stata realizzata da Claudio Simonetti. Simonetti, da solo o come membro dei Goblin, ha composto le musiche di molti altri film di Argento, come ad esempio Profondo rosso, Tenebre, Phenomena ed Opera. Inoltre è Simonetti che nel 1977 con i Goblin ha composto la colonna sonora di Suspiria, la prima pellicola della trilogia che ha il suo epilogo proprio ne La terza madre. Il brano che accompagna i titoli di coda si intitola Mater Lacrimarum ed è stato scritto in collaborazione con Dani Filth, leader del gruppo symphonic black metal Cradle of Filth, che ha prestato voce e liriche alla canzone.
Il film non ha ottenuto il successo di pubblico sperato, guadagnando in tutto 2.077.000 €, incasso di molto inferiore alle aspettative; la pellicola è stata l’82° maggior incasso della stagione cinematografica 2007-2008. Alcuni critici lo hanno considerato una conclusione deludente per la trilogia delle tre madri. Pino Farinotti scrive lapidariamente sul suo dizionario, dando una stella al film: «Argento chiude la trilogia iniziata con Suspiria ed Inferno a quasi trent’anni di distanza dai capitoli precedenti: conclusione deludente.
Mater Lacrimarum fa la sua prima apparizione nel film Inferno (1980), secondo capitolo della trilogia delle tre madri, che vedeva come antagonista principale Mater Tenebrarum. La strega si trova a Roma, sotto le sembianze di una bellissima studentessa di musica, dentro una stanza d’ascolto dell’università e viene avvistata dal protagonista Marc. Lei lo fissa intensamente provocandogli un lungo brivido di freddo. Subito dopo, durante l’ascolto del Va, pensiero di Giuseppe Verdi, la finestra della stanza si spalanca e una folata di vento scompiglia i capelli della donna. Solo alla fine dell’ascolto Marc si riscuote dalla paura, ma quando si gira per capire chi fosse quella donna, la strega è scomparsa. In seguito riappare in un taxi, dopo che Marc ha scoperto i cadaveri di Sara e Carlo, uccisi proprio da Mater Lacrimarum. In Inferno Mater Lacrimarum è stata interpretata da Ania Pieroni; Argento le propose di riprendere il ruolo ne La terza madre ma la Pieroni, ormai invecchiata e da anni non più attiva come attrice rifiutò; il ruolo di Mater Lacrimarum è stato dunque affidato all’israeliana Moran Atias.
La terza madre riunisce la famiglia Argento dopo tanto tempo: Daria Nicolodi, Dario Argento e la loro figlia Asia.
La presenza di Daria Nicolodi chiude in un certo senso la trilogia in quanto è stata co-sceneggiatrice di Suspiria e di Inferno; in Inferno la Nicolodi ha partecipato anche come attrice nel ruolo di Elise.
Gli esterni delle scene in cui la protagonista si reca a trovare Padre Johannes sono girate nel complesso medievale dell’Abbazia di Sant’Antonio di Ranverso, in provincia di Torino.
Il cimitero di Viterbo è in realtà il cimitero di Andezeno, anch’esso in provincia di Torino.
Gli interni sono stati girati a Cinecittà (Roma).
Le sequenze in cui Sarah Mandy (Asia Argento) si trova nei sotterranei, immersa in una poltiglia grumosa giallastra, ricordano molto quelle di Phenomena (1985), in cui la protagonista Jennifer Corvino (Jennifer Connelly) si ritrova immersa in una vasca con cadaveri in putrefazione nei sotterranei della casa dell’assassino; analogamente, rimandano a Phenomena la presenza di una scimmia urlante e di una lancia scomponibile, utilizzata da un emissario del Male per impalare una donna.
Al cinema è uscita una versione priva di alcuni momenti gore: più lunga, nell’edizione home video, la scena dell’uccisione di Padre Johannes (Udo Kier).
Il palazzo romano della Mater Lacrimarum è sito nella città di Torino in Viale Thovez.
La terza madre, viene specificato all’inizio del film Inferno, dovrebbe essere Mater Tenebrarum, mentre qui diventa invece Mater Lacrimarum.
David Speciale a Dario Argento
Il Direttore Artistico dell’Accademia del Cinema Italiano, Piera Detassis:
“Siamo felici e onorati di assegnargli il David di Donatello Speciale a riconoscimento di una carriera che lascia un segno profondo rosso nella storia del cinema”.
Il regista, sceneggiatore e produttore Dario Argento ha ricevuto il David Speciale nel corso della 64a edizione dei Premi David di Donatello. Lo annuncia Piera Detassis, Presidente e Direttore Artistico dell’Accademia del Cinema Italiano – Premi David di Donatello. Il riconoscimento, deciso in accordo con il Consiglio Direttivo consegnato il 27 marzo durante la cerimonia di premiazione, in diretta in prima serata su Rai1 condotta da Carlo Conti.
“Con il David Speciale a Dario Argento premiamo un maestro nell’arte della paura e del thriller, l’autore capace di suscitare, indagandoli nel profondo, i nostri atavici spaventi con uno stile personale che ha influenzato intere generazioni, unendo affondo d’autore e vocazione alla narrazione di genere – dice Piera Detassis – Un esempio di cinema pop sempre linguisticamente innovativo. Siamo felici e onorati di assegnargli il David di Donatello Speciale a riconoscimento di una carriera che lascia un segno profondo rosso nella storia del cinema“.
Ecco il dietro quinte di Tenebre di Dario Argento. Come é nato il film
Tenebre è un film del 1982 diretto da Dario Argento. La pellicola rappresenta il ritorno di Argento al genere thriller che lo ha reso famoso, dopo i primi due episodi della “Trilogia delle tre madri“, caratterizzati da un orrore soprannaturale.
Argento nella regia è assistito da Lamberto Bava e Michele Soavi, futuri registi di pellicole del terrore e presenti nel film anche in brevi cameo (Bava nel ruolo di un addetto alla riparazione di un guasto e Soavi nel doppio ruolo di fidanzato di Lara Wendel e corteggiatore di Eva Robin’s in un flashback).
Argento ha rivelato che la genesi di Tenebre è stata influenzata da uno spiacevole incidente accadutogli nel 1980 quando venne molestato da un fan ossessivo.
Secondo quanto dichiarato da Argento, l’ammiratore lo perseguitava telefonandogli di continuo, giorno dopo giorno, fino a quando gli confessò di volerlo uccidere.
Anche se la minaccia si dimostrò infondata e il tutto si risolse in una bolla di sapone, Argento trovò l’esperienza che gli era capitata terrificante e scrisse Tenebre come risultato delle sue paure.
A dispetto del suo titolo, Argento diede disposizione al suo operatore Luciano Tovoli di girare le scene del film con la maggiore luce possibile. Girato principalmente a Roma, molte delle scene del film sono ambientate di giorno, o in interni fortemente illuminati.
Il regista spiegò che stava adottando: “… uno stile di fotografia moderno, discostandomi deliberatamente dalle atmosfere scure e cupe della tradizione del cinema espressionista tedesco a cui l’horror si era sempre rifatto“. A tal proposito, è emblematica la scena dell’omicidio del personaggio interpretato da John Saxon, girata in pieno giorno in una piazza assolata e affollata di passanti. Il regista disse anche che la visione del film di Andrzej Żuławski Possession (1981) aveva fortemente influenzato la sua decisione di girare Tenebre con un’illuminazione forte.
Sinossi
Peter Neal è uno scrittore di successo nel genere thriller. A Roma per presentare il suo ultimo romanzo, “Tenebrae”, si trova coinvolto nelle imprese di un serial killer che si ispira proprio al suo libro. L’assassino uccide alcune donne ree – secondo il suo distorto modo di pensare – di infamanti aberrazioni. Neal si mette a indagare per conto proprio.
Longinus, la prima serie televisiva creata dal maestro del brivido Dario Argento
Argento accompagna i telespettatori, episodio dopo episodio, nel suo immaginario oscuro e terrificante. In un thriller sospeso tra il reale e il soprannaturale
Dario Argento si dà per la prima volta al mondo delle serie TV con Longinus. Il maestro del brivido, regista e autore visionario del genere horror che nel corso degli anni ha tolto il sonno a varie generazioni, approda nel mondo delle serie televisiva per la prima volta, regalando una nuova, indimenticabile esperienza a tutti gli appassionati del genere.
Longinus, con le sue ambientazioni, i suoi riferimenti simbolici, i suoi personaggi in bilico fra il bene e il male si preannuncia come una serie d’autore internazionale. Il regista del brivido non è nuovo alle serie TV: nel 1987, infatti, ha diretto Gli incubi di Dario Argento, una miniserie creata per Giallo, un programma di Rai 1 condotto da Enzo Tortora.
Questa serie, che nasce da una co-produzione di Publispei di Verdiana Bixio e di BIM Produzione, società del gruppo Wild Bunch, in associazione con Riccardo Russo e presieduta da Antonio Medici, non è ancora chiaro come verrà distribuita, anche se non è da escludere un suo arrivo su qualche piattaforma digitale come Amazon Prime Video o Netflix.
Due anni dopo Tenebre, Dario Argento riesce a riunire se non tutti i Goblin, almeno i due suoi elementi più importanti Claudio Simonetti e Fabio Pignatelli. Per la colonna sonora di Phenomena, Argento ha in mente di utilizzare non solo i brani dei Goblin, ma anche musica heavy metal preesistente e musica composta appositamente per il film da altri musicisti.
Ne viene fuori una colonna sonora “compilation” – scrive Fabio Meini – come andranno di moda di lì a poco nel cinema horror, soprattutto in America. La prima stampa di questa colonna sonora è datata 1985 con l’LP Cinevox (MDF 33.167) che include anche i brani non dei Goblin, mentre le ristampe in CD (la più completa Cinevox CD MDF 618) hanno tutti i brani dei Goblin, ma escludono le musiche degli altri musicisti. Variazioni a parte, i Goblin compongono per questa colonna sonora cinque brani: Phenomena (firmata dal solo Simonetti), Jennifer (firmata dal solo Pignatelli), The Wind, Sleepwalking e Jennifer’s friends. Phenomena è il brano più famoso, una melodia per soprano e tastiere che sfocia in un rock veloce, usata molte volte nel film per sottolineare i momenti in cui Jennifer ha a che fare con gli insetti, ma anche come canzone dei titoli di coda. Jennifer è invece un brano rock melodico legato ovviamente alla protagonista. The Wind è più sperimentale con effetti di vento e voce di soprano nella prima parte e veloci ritmi percussivi nella seconda. Infatti il brano lo troviamo spezzato in due nel film. Sleepwalking è un brano elettronico ritmato che accompagna le due sequenze di sonnambulismo di Jennifer. Un’altra traccia elettronica Jennifer’s friends è presente sia nell’LP che nel cd della colonna sonora, ma non fu utilizzata nel film. Fu usato invece il pezzo Jennifer’s friends – alternate version diversamente da quanto riportato dal cd (sul vinile è invece assente) nelle scene in cui la scimmia trova il rasoio e quella in cui Jennifer guidata dalla mosca trova la casa del killer.
Fra gli altri brani composti appositamente per il film, il più importante è sicuramente Valley di Bill Wyman e Terry Taylor rispettivamente bassista dei Rolling Stones e chitarrista dei meno noti Tucky Buzzard. Questo brano caratterizzato dal sintetizzatore e dal basso elettrico è quello dei titoli di testa nella larga inquadratura della vallata. Lo ritroviamo nel film quando Jennifer trova la vallata luogo del primo delitto, e anche nel finale quando esce dall’acqua. Una variazione di questo tema Valley bolero si sente quando la compagna di stanza di Jennifer esce per incontrare il suo ragazzo. Questo bel brano non è stato inciso nell’LP. L’altro brano scritto appositamente per la colonna sonora è The Maggots di Simon Boswell, noto autore di colonne sonore horror. Il suo è un brano di tensione che ritroviamo molte volte durante il film.
Poi ci sono i brani già esistenti inclusi nel film. Il più famoso e importante è Flash of the blade degli Iron Maiden che sentiamo durante la fuga di una ragazza nel bosco e quando Jennifer si trova rinchiusa nella casa dell’assassino. Altro brano significativo è Locomotive dei Motorhead. Nel disco e nei titoli di coda del film ci sono anche due brani di Andi Sexgang: The quick and the dead” e The Naked and the dead, ma nel film non sono riuscito a sentirli. Peggio ancora nel caso di Two tribes dei Frankie Goes To Hollywood che è nell’LP ma di cui non vi è traccia nel film, nemmeno nell’elenco dei brani dei titoli di coda.
Alcune curiosità musicali arrivano dalla televisione accesa nella camera di Jennifer. Per alcuni istanti si vede un gruppo che suona: sembra proprio la band dei Goblin ed infatti si odono alcune note di E suono rock dal loro disco Il fantastico viaggio del Bagarozzo Mark. Successivamente sempre dalla televisione appare una scena tribale accompagnata dal brano Safari dei Goblin, tratto dalla colonna sonora di Zombi. Questi due ovviamente non sono nei dischi della colonna sonora. Nei titoli di coda appare fra le musiche anche il brano Insects di Fabio Pignatelli, che è il titolo alternativo del brano The Wind. Dei brani Phenomena e Valley furono realizzati anche dei videoclip con la regia di Michele Soavi facilmente recuperabili in rete. Se volete quindi “tutta” la musica di Phenomena non c’è altro modo che comprare sia il 33 giri che il CD.
4 mosche di velluto grigio di Dario Argento
Tra il 1970 e il 1971 Dario Argento prima esordiva con L’uccello dalle piume di cristallo, e poi realizzava complessivamente tre film – insieme a Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio – con cui si affermava come autore di un genere ‘nuovo’, nel senso che riusciva a far convivere, amalgamandoli, il giallo, l’horror, il thriller e in parte il noir, attraverso un proprio specifico stile, che poi affinerà sempre di più nel corso della lunga carriera. CG Entertainment rende finalmente disponibile, dopo 45 anni, una splendida versione dell’ultimo film della trilogia, 4 mosche di velluto grigio, permettendo di fruire di una copia restaurata con l’altissima definizione del blu ray, e il risultato è sublime; già dalle primissime sequenze si sprofonda nell’atmosfera del film, in cui lo spettatore è fortemente coinvolto nel tentativo di svelare l’identità dello psicopatico che tormenta, ricattandolo, il protagonista, un giovane musicista, vittima di un disegno criminale, attraverso cui gli si vuole recare il maggior danno possibile.
L’insistenza della macchina da presa sui dettagli, a cominciare da quella fastidiosa mosca che viene tramortita da un colpo secco dei piatti di una batteria, diviene un stilema, attraverso cui Argento amplifica quei dati di realtà che poi costituiscono la chiave di volta per interpretare la successione dei fatti che si snocciolano durante l’ora e tre quarti di visione. Stilemi che ritroveremo ancor più sviluppati e perfezionati in Profondo Rosso (1975), il capolavoro del regista romano, film che seguì la breve parentesi de Le cinque giornate, pellicola che Argento si ritrovò a girare per motivi produttivi. La musica, affidata a Ennio Morricone, è affilata, ritmica, come quella pulsazione del cuore che intervalla i titoli di testa, presagendo una situazione di tensione che poi avviluppa la narrazione fino al liberatorio epilogo, divenuto ormai leggendario, per il quale Dario Argento utilizzò una macchina da presa proveniente dall’università di Lipsia, la Pentazet, con cui poté girare a 36000 fotogrammi al secondo, fermando il tempo, penetrandovi all’interno, dilatandolo in una durata-flusso.
Si nota l’interessante lavoro di scrittura (il soggetto fu realizzato da Dario Argento, Luigi Cozzi e Mario Foglietti, mentre la sceneggiatura dal solo Argento), giacché la trovata iniziale che costituisce il surreale antefatto del film è assai originale, dimostra una vivida fantasia e la capacità di pensare fino in fondo il rovesciamento dell’usuale percezione della realtà, dato che il rapporto carnefice-vittima viene sapientemente ribaltato, creando una sorta di allucinazione che poi destabilizzerà il malcapitato protagonista (Michael Brandon), convinto di aver commesso un misfatto che invece è la diretta conseguenza di un diabolico piano. La rabbia del persecutore deve trovare un oggetto contro il quale scagliarsi, qualunque esso sia, e assistiamo a un crescendo di violenze che sono il prodotto di un grave malessere, un disturbo mentale contratto durante un’infanzia sofferta. L’approfondimento psicologico dei personaggi è, anche in questa occasione, decisivo, e Argento è abilissimo a tratteggiare la personalità dell’oppressore, costruendo un fitto mosaico di rapporti, pur riducendo all’osso i dialoghi, che non assumono mai un tono didascalico, né tanto meno imboccano lo spettatore sullo sviluppo della vicenda. Solo nelle ultime scene – e non poteva essere altrimenti – assistiamo alla rivelazione che scioglie i nodi della narrazione, e, seppur inevitabile, l’esito finale lascia l’amaro in bocca, dato che consegna definitivamente alle fiamme dell’inferno un soggetto il quale, sebbene resosi colpevole di efferati crimini, rimane tuttavia il prodotto di una storia personale difficilissima che ne ha inesorabilmente minato l’equilibrio psichico.
C’è spazio nel film anche per la breve partecipazione di Bud Spencer – ricorda Luca Biscontini – in un ruolo minore, che poi però si rivela decisiva ai fini della risoluzione della storia. Bellissima inoltre la scena ambientata all’interno di una ‘fiera funeraria’, in cui vengono presentati i più moderni modelli di bare, e Argento si produce in una divertente ironia che, cercando di esorcizzare lo spauracchio della morte, rivela una non comune sottigliezza.
Che cosa ha detto Dario Argento di Suspiria diretto da Luca Guadagnino
Quanto al remake di Suspiria, diretto da Luca Guadagnino, Argento si è così espresso: “Cosa penso del remake? Non è molto utile, credo sia essenzialmente un’operazione commerciale. Finora nessuno mi ha detto niente. Adesso Luca Guadagnino mi ha cercato e mi ha chiesto se la prossima settimana posso andare sul set a vedere come lo sta girando. Sono un po’ curioso, ma penso che non dirò nulla, sarò un testimone muto”. Parole non dissimili da quelle ascoltate poche ore fa a Trieste, dove l’attore olandese, Premio alla Carriera Urania d’Argento, Rutger Hauer, ha detto: “Ha poco senso il sequel di Blade Runner”. Quello di Suspiria si chiamerà Suspiria De Profundis, e sarà un remake all star con Choe Grace Moretz, Dakota Johnson e Tilda Swinton.
Tanti i progetti, tanti i ritorni, come quello di 4 mosche di velluto grigio, in home video dal 22 novembre. “Sono molto felice di questo ritorno” – ha dichiarato. “Si tratta di un film molto personale, quasi autobiografico, quasi un’auto-seduta dallo psicanalista, anche se me ne sono accorto solo dopo”.
Non la vede cosi Boris Schumacher che scrive a proposito del Suspiria di Guadagnino
Suspiria: un atto d’amore di Luca Guadagnino per il film di Dario Argento
Volente o nolente, Luca Guadagnino è divenuto, insieme a Paolo Sorrentino, il regista italiano più amato/odiato dalla critica di casa nostra, capace con i suoi ultimi lavori di far discutere e dar vita a dibattiti accesi e infiniti, con pubblico e addetti ai lavori divisi in estimatori entusiastici e detrattori inferociti. Il suo nuovo film, presentato in Concorso a Venezia, sembra pensato apposta per infiammare più che mai le polemiche attorno al suo cinema. Esiste un testo filmico più sacro (o demoniaco, fate voi) e inviolabile di Suspiria, il capolavoro furioso e furente realizzato da Dario Argento nel 1977? Fuor di polemica – destinata invece a protrarsi ad infinitum – è bene fugare ogni dubbio e approcciarsi al (finto) rifacimento di Guadagnino con la consapevolezza di trovarsi al cospetto di un libero omaggio, un atto d’amore nei confronti dell’originale, utilizzato dal regista siciliano come un pretesto, una semplice suggestione iniziale attorno a cui costruire un discorso più ampio e approfondito. Il Male, inquadrato qui come un’entità presente da sempre nel nostro mondo, ancor prima del Divino, prima che sovrannaturale è terreno e tangibile, radicato nel contesto storico in cui è ambientato il film, la Berlino del 1977 sconvolta e squassata dalle azioni terroristiche della RAF e dalle dure repressioni del governo tedesco, divisa dal Muro e lacerata dagli echi non sopiti dell’Olocausto (in quell’anno la Banda Baader-Meinhof sequestrò Hanns-Martin Schleyer, il presidente della Confindustria tedesco-occidentale nonché ex membro del partito nazista). La scelta di spostare l’azione da Friburgo a Berlino non è certo casuale ma intenzionale, la Tanz Akademie fondata da Elena Markos e gestita dalla carismatica Madame Blanc si trova a due passi dal muro che separa le due Germanie, muto testimone dell’orrore soprannaturale che risiede lì accanto e simbolo del dramma umano e delle sofferenze terrene di un popolo martoriato e diviso.
Il nuovo Suspiria è un film ambizioso e coraggioso, che talvolta cade a terra insieme alla sua protagonista ma riesce sempre a rialzarsi con forza, energia e tenacia. Denso, stratificato, talmente carico e complesso che una sola visione è insufficiente per poterlo metabolizzare a dovere, lontanissimo dall’impianto scenografico di Argento e dalla fotografia di Luciano Tovoli (che viene comunque omaggiata nel sesto atto), con un preciso e voluto rimando al cinema di Rainer Werner Fassbinder e alle sue figure femminili, come testimonia la presenza nel cast di Ingrid Caven, moglie e musa del regista tedesco. Un (finto) horror d’autore che piacerà pochissimo agli amanti del genere e che sarà un sonoro flop al botteghino, col pubblico deluso, spiazzato e stordito in fuga dai multiplex, il luogo meno adatto dove poterlo vedere (complimenti alla scelta scellerata del distributore di mandarlo al macello nelle sale durante le festività natalizie, con gli spettatori in cerca di tutt’altro, quando sarebbe stato molto più saggio e oculato distribuirlo in autunno, a ridosso della presentazione alla Mostra di Venezia). Nella messa in scena raffinata e ricercata di Guadagnino le coreografie, curate da Damien Jalet, sono fondamentali e preponderanti, a differenza del film di Argento dove la danza è marginale e accessoria, confinata a brevi e sporadiche scene. La danza è usata qui in funzione espressiva e narrativa, talvolta diviene un suggestivo sabba stregonesco, è anima e fulcro di sequenze potenti e perturbanti, sgradevoli e disturbanti, come il balletto spaccaossa o il folle rito finale che si trasforma in una mattanza barocca e delirante, una resa dei conti tra fazioni contrapposte dal sapore cronenberghiano.
Susie, interpretata da Dakota Johnson, non più la Banner di Argento ma la Bannion di Guadagnino, intraprende un percorso ben diverso da quello compiuto da Jessica Harper (impegnata qui in un piccolo e fugace cameo) nel film del 1977. Più intimo e doloroso, più introspettivo e combattuto nel far emergere attitudini e vocazioni a lei ignote prima di trasferirsi a Berlino dal lontano Ohio. Un percorso oscuro e travagliato alla scoperta del proprio io nascosto che si conclude con una rinascita spiazzante e liberatoria.
Guadagnino, da cinéphile accorto e appassionato, schiva e rifugge gli accostamenti con l’originale – inimitabile e inarrivabile – tagliando subito l’ingombrante cordone ombelicale, evitando di scimmiottare o evocare le indimenticabili musiche dei Goblin, affidando la colonna sonora alle note suadenti e ipnotiche di Tom Yorke, frontman dei Radiohead. Il suo, come dicevamo in precedenza, è un ambizioso atto d’amore attorno a cui costruire un percorso diverso, più tortuoso e imperscrutabile, e un discorso più ampio sul Male e sul Bene, sull’amore (con la storia tra il dottor Klemperer e la moglie recisa e spezzata dalla follia nazista di cui alla fine resta solo un cuore con due iniziali incise su un muro) e sulla morte. Un’opera tutta al femminile – ancor più di quella di Argento – dove l’unico personaggio maschile di primo piano, non a caso, è interpretato da una formidabile e irriconoscibile Tilda Swinton, alle prese con un impegnativo e sfiancante tour de force che la vede impegnata in un triplice ruolo. Le donne come fonte di vita ma anche di morte, madri terribili eppure insostituibili. Il Suspiria di Guadagnino non lavora sul genere horror come quello di Argento, non angoscia e spaventa allo stesso modo ma lascia un senso di turbamento e di spaesamento al termine della visione destinato a permanere a lungo e a radicarsi in profondità.
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