Conversation
Conversazione con Maria Vera Ratti, coprotagonista de Il commissario Ricciardi
Nella parte di Enrica Colombo, Maria Vera Ratti è stata una delle rivelazioni de Il commissario Ricciardi.
Published
4 anni agoon
Nella parte di Enrica Colombo, Maria Vera Ratti è stata una delle rivelazioni de Il commissario Ricciardi. Ne scopriamo il perchè nella conversazione con l’attrice.
Mi sembra che il ruolo di Enrica Colombo moltiplichi lo straniamento che normalmente si ha quando si fa il tuo mestiere: a parte quello di diventare altro da te la serie dedicata al commissario Ricciardi ha un surplus psicologico dovuto al fatto che del tuo personaggio esisteva già una versione letteraria e che la storia si svolgeva in un’epoca diversa dalla nostra.
Come hai detto è stata un’esperienza straniante. È stato spiazzante ritrovarsi in quel mondo ricostruito in maniera così accurata, considerando che in realtà non si trattava di Napoli ma di Taranto vecchia. Nella prima sarebbe stato impossibile ricostruire quartieri degli anni trenta perché come giri l’angolo c’è un’antenna piuttosto che un insegna che non puoi rimuovere. Al contrario la parte più vecchia di Taranto, situata nel centro della città, è rimasta immutata. Ci sono palazzi bellissimi e disabitati e d’estate non c’era praticamente nessuno, quindi per noi era come stare in un teatro di posa a cielo aperto. Questo ci ha aiutato molto a immergerci in quella storia. Per i costumi è stato fatto un lavoro minuziosissimo, legato non solo al dettaglio estetico o filologico ma anche allo studio di come essi si potessero adattare alle caratteristiche umane dei personaggi. Non era scontato che in una serie televisiva ci potesse essere così tanta attenzione a ogni aspetto della messinscena.
Il tuo approccio è stato quello di cercare agganci concreti con la realtà o invece immaginare qualcosa di nuovo che se ne distaccasse?
Vestirsi nel modo in cui lo abbiamo fatto noi, muoversi in quegli ambienti e dentro quelle case in maniera così corale ti proietta in un altro posto e dentro quella realtà. Per quanto riguarda il mio approccio personale con Enrica sono partita dai romanzi di Maurizio di Giovanni perché alla fine uno cerca sempre di farsi tramite di quello che esiste già. Poi, però, è entrato in gioco quello che ho trovato sul set, l’aria che si respirava, la visione e il mood con cui volevamo raccontare i personaggi. In tutti i ruoli che ho fatto finora – non sono tantissimi -, ho sempre cercato di portare non me stessa ma quelli che sono i miei punti in comune con gli altri esseri umani. Il tentativo era quindi di allacciarmi a delle cose che mi unissero o mi facessero in qualche modo avvicinare al mio personaggio.
Volevo chiederti se all’interno del tuo personaggio hai portato dettagli tratti dall’osservazione della vita quotidiana e per esempio tic, manie e modi di fare delle persone.
Enrica ti permette di fare una delle cose preferite dagli attori e cioè quella di un’interpretazione condotta all’insegna del trasformismo e della maschera. Guardandoti è quasi impossibile riconoscere Maria Vera.
Ti dico, sinceramente è l’unica volta che ho avuto davvero piacere a guardarmi, cosa che di solito non capita. Con Enrica è successo perché per quanto fossi struccata e con i capelli appena tagliati lei non mi assomigliava; avevo le lenti ed ero un po’ sgraziata ma lei mi piace tanto, la trovo bella e dunque non faccio fatica a guardarla.
Il tuo ruolo è quanto di più cinematografico ci possa essere. Tutto ciò che lo riguarda, soprattutto nei primi episodi, è riferito all’atto del guardare poiché nella maggior parte delle scene ti si vede incorniciata all’interno della finestra attraverso la quale vieni scorta dal commissario. In pratica la tua figura e il risultato della sovrapposizione di due diverse inquadrature che rimanda alla lezione di Alfred Hitchcock.
Enrica è stato un personaggio difficile da interpretare perché mi ha costretto a fare qualcosa di inedito. La sua figurazione non ha nulla di naturalistico e secondo me per questo diventa un personaggio cinematografico nel senso più alto del termine. Alessandro D’Alatri raccontava che avrebbe voluto fare la pubblicità alla serie trasformando i personaggi in figurine del mercante in fiera. I nostri è come se fossero statuine di un presepe e questo, oltre a introdurre una dimensione ludica, rimanda a una realtà che va oltre a quella che appare sullo schermo. In questo senso è cinematografico perché racconta qualcosa di più.
Come ne La Finestra sul cortile le tue immagini riportano all’idea stessa del cinema, al voyeurismo, alla visione.
Sì, il mio personaggio si portava appresso questa impostazione anche quando non era alla finestra perché il sua figura era di continuo mediata da qualcosa che la ricordava. Mi riferisco ai vetri degli occhiali e poi alle lenti a contatto. Tre finestre con le quali il nostro direttore della fotografia ha saputo destreggiarsi con risultati davvero egregi. Così nascosta, non era facile trovare l’anima di Enrica. Lui c’è riuscito.
Soprattutto all’inizio la tua è una figura idealizzata, più frutto di un sentimento che di una reale frequentazione Per certi versi tu sei una proiezione del commissario.
Parlavi dell’importanza degli accessori. Nel caso di Enrica i vestiti diventano specchio dell’anima. Stretti come sono, sembrano imprigionarne il corpo, rendendola un po’ goffa nella stessa maniera in cui lo sono i sentimenti quando si devono manifestare agli altri.
Nei romanzi Enrica è descritta come una ragazza un po’ sgraziata ma con una sua eleganza, per cui me la sono immaginata poco avvezza allo sport perché all’epoca non è che se ne facesse così tanto. Al contrario passava il tempo a ricamare.
Da qui la postura un po’ curva.
È una maestra e quindi passa molto tempo seduta. A renderla impacciata è il fatto di non essere mondana e di sembrare sempre in difesa quando si tratta di affrontare il mondo esterno. Prima parlavi di maschere: lei con la sua famiglia è in un modo mentre con gli sconosciuti è come se volesse trasmettere una immagine rigorosa. In realtà è una ragazza dolce ed estremamente sensibile che nasconde tutto questo in maniera goffa, ricercando una severità che però non le appartiene. Per questo alla fine diventa un po’ impacciata.
La forza della tua interpretazione è di farne percepire armonia e bellezza in un contesto generale che tende a nascondere questi pregi.
Certo, perché lei ha comunque una sua eleganza. Mi ricordo di una volta in cui stavo girando una scena con Nunzia Schiano che nella serie è Tata Rosa: Alessandro prima di girare le diceva: “tu vuoi che lei sposi il commissario perché per te Enrica è una regina. Guardala, guarda che eleganza, guarda che portamento!: Lidia è elegante ma non ha la sua purezza”. Enrica secondo me è molto nobile d’animo come anche il commissario che infatti si interessa dei suoi possedimenti.
Soprattutto nei primi film nel vostro rapporto la distanza fisica è supplita dalle affinità elettive, dall’immaginazione e dal desiderio. Questa relazione virtuale – nel senso più positivo del termine -, mi sembra molto contemporanea poichè oggi viviamo nell’epoca degli amori a distanza.
Certo! In molti hanno detto che quello tra il commissario ed Enrica è un’amore d’altri tempi. Forse le modalità adesso sono diverse però secondo me ci sono molte similitudini con le persone della mia generazione che non stanno ferme un attimo, perché sempre in viaggio in Europa e nel mondo. Dunque può capitare che un’amore si manifesti e poi rimanga li per qualche anno prima di concretizzarsi proprio perché non ci si riesce a vedere quanto si vorrebbe. Comunque quello che dici è molto bello perché l’empatia di cui parli è proprio quello che speravo suscitasse la serie nell’animo degli spettatori.
L’approccio lavorativo con Lino Guanciale è stato di tipo tradizionale oppure alla maniera dell’actor studio avete evitato di frequentarvi per rimanere nel mood dei vostri personaggi?
No, assolutamente. Stavamo spesso tutti insieme e per quanto riguarda Lino, lui è una persona capace di mettere gli altri a proprio agio, di rompere il ghiaccio e calamitare le persone facendole sentire parte del gruppo. Questa cosa mi è servita tanto perché erano le mie prime esperienze e sapere di avere la fiducia di un attore dalla carriera consolidata è molto rilassante.
La relazione tra Enrica e il commissario è all’insegna del pudore, della timidezza e del non detto. Come si diceva è un amore d’altri tempi.
Si, è una relazione d’altri tempi tra due persone che forse ancora non sanno bene cos’è l’amore. La differenza tra il commissario e Lidia è che lei si è stata già innamorata e comunque si è sposata. mentre Enrica e il commissario incontrano per la prima volta l’amore venendone travolti. Ognuno in maniera diversa: per Enrica è talmente inaspettato da metterla nella condizione di non saper gestire questa valanga emotiva; dal canto suo Ricciardi si trova a gestire un sentimento che aveva sempre cercato di evitare.
Al momento sei sul set di un film straniero. Tu sei inglese madre lingua e hai vissuto molto all’estero per cui ti chiedo se utilizzare un’idioma diverso da quello solito influenza la tua recitazione?
Sarà il tuo esordio in un lungometraggio?
Prima di questo avevo fatto un piccolissimo ruolo in Miss Marx però qui sono la protagonista e quindi in questo senso è la prima volta.
Da attrice ma anche da spettatrice mi interessava sapere i il tipo di cinema che preferisci?
Ieri sera ero con i registi e il produttore e mentre bevevamo una una birra è uscita fuori questa domanda e nessuno su due piedi sapeva cosa rispondere. Alla fine abbiamo fatto prevalere la pancia e dunque ti farò un esempio classico e un altro contemporaneo. Nashville di Robert Altman è in cima alle mie preferenze ma è un film particolare. All’università il mio esame preferito è stato antropologia culturale e in questo momento sono molto in fissa con l’America e con gli Stati Uniti del sud. Per questo da quando l’ho visto per la prima volta ai corsi del Centro Sperimentale è diventato un po’ il sottofondo della mia vita. Quando un’opera racconta talmente bene il segno di una società, sia dal punto di vista estetico che delle dinamiche interpersonali, sprigiona un’energia che un giorno anche io vorrei essere in grado di raccontare in maniera così naturalistica e sincera. Nashville è come fosse una lettera d’amore agli Stati Uniti raccontati attraverso i suoi difetti e questa è una cosa che mi ha toccato moltissimo. L’ho trovato straordinario, sincero e poetico. Venendo al cinema di oggi mi viene da dire Il divo di Paolo Sorrentino. E’ un film estremamente curato e con una struttura che entra a far parte del racconto attraverso una continua autocitazione. Il risultato finale è quella di un film nel film in cui il metaforico diventa preponderante. Quando questo succede la visione del regista arriva al pubblico in maniera più potente e fa si che anche all’estero la storia di Giulio Andreotti venga capita pur non conoscendo il personaggio di cui si parla.
Hai in mente di diventare anche regista?
E’ presto per dirlo. Però come si dice, secondo me tutti gli artisti hanno un po’ un film in canna. Spesso mi capita di immaginare di voler raccontare determinate cose ma al momento non credo di avere gli strumenti per poterlo fare. In un futuro, se dovessi avere una carriera lunga e piena di insegnamenti, sarebbe la cosa più bella che potesse capitarmi.
Il nome di un’attrice tra le tante che ti piacciono.
Ultimamente comincio a vedere colleghi e colleghe della mia età – io ho 26 anni – che iniziano a farsi strada ed è una cosa che mi entusiasma moltissimo. Per dirti una sciocchezza, quando vado a farmi il tampone a farmelo è una dottoressa della mia stessa età e questo mi fa molto piacere. Per questo ti dico Saoirse Ronan e, tra le attrici classiche, Gena Rowlands. In Italia ho molta stima per Beatrice Schiros e Fabrizia Sacchi.
La serie Il commissario Ricciardi è prodotta da Rai Fiction e Clemart.