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Vittorio Rifranti racconta ‘La Guarigione’ ai microfoni di Taxidrivers
Il film verrà presentato in concorso nella sezione Asti Short Italia
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4 anni agoon
Prodotto dall’Istituto Michelangelo Antonioni, La Guarigione di Vittorio Rifranti racconta l’amore come cura dell’altro, attraverso uno sguardo partecipe alle vicende umane dei suoi personaggi.
Il film verrà presentato in concorso nella sezione Asti Short Italia il 16 dicembre alle 21. Saranno presenti alla proiezione Vittorio Rifranti e l’attrice protagonista Noemi Bertoldi.
L’immagine iniziale mi pare che racconti innanzitutto uno stato d’animo e lo sguardo dritto verso la telecamera da parte della protagonista sia un modo per stabilire un rapporto privilegiato con lo spettatore, una reciproca interrogazione: quella che lei fa a noi e noi facciamo a lei.
Te lo confermo e aggiungo una cosa. Quando ho scritto la sceneggiatura, avevo previsto che lei guardasse in macchina e dunque si rivolgesse allo spettatore con uno sguardo anche molto duro, deciso e diretto; che lo interpellasse attraverso l’espressione di uno stato d’animo. Avevo anche dei piani più larghi, senza sguardo in macchina, però poi mi sono detto di andare fino in fondo con questa cosa, perché è importante che lei ci guardi negli occhi. Mi ero quindi tenuto questa piccola riserva. Però già sul set mi sono reso conto che non aveva senso tenersi un’opzione alternativa, perché sentivo necessario quell’inizio lì, con lo sguardo della protagonista che mi sembrava riassumere uno stato d’animo senza bisogno di doverlo raccontare.
Questo doppio sguardo, il nostro e il suo, presuppone un’ assunzione di responsabilità da ambo le parti: dello spettatore, spesso disattento rispetto a quanto succede sullo schermo, della protagonista che invoca un aiuto fin lì negatole.
Quello che mi è piaciuto di questa prima sequenza è il contrasto tra lo sguardo duro e deciso e il corpo sciolto e flessuoso. Zina ha tutto per essere felice, ma a dire il contrario è la rigidità del volto, che contraddice l’armonia della sua figura.
Forse non si nota tanto, però io le ho chiesto di muoversi in maniera un po’ disarmonica rispetto alla voce. Mi fa piacere se questo arriva, perché lei è talmente armoniosa da coprire eventuali imperfezioni. Io le avevo detto di seguire la musica in maniera parziale, invitandola ad andare per conto suo, perché Zina è lì da sola, isolata dal contesto circostante. La musica le dà degli impulsi, ma lei non balla seguendo il ritmo del pezzo o non lo segue in maniera stretta.
Sempre nella sequenza introduttiva, succede che in piena progressione narrativa e musicale, quando siamo in simbiosi ipnotica con la protagonista, tutto si ferma e si passa ad un’altra scena. Questa, secondo me, ci sta già comunicando un altro aspetto della condizione vissuta dalla protagonista, e cioè quella di una libertà ostacolata da una realtà che le si oppone in maniera brusca. Come nel ballo, anche con il padre, Zina cerca di lasciarsi andare e, come all’interno della discoteca, la risposta non è favorevole.
Sì, l’interruzione secca rappresenta quanto dici: catapulta Zina, anche dal punto di vista emotivo, nella sua dimensione della quotidianità.
Invece di ricevere una risposta al suo grido di aiuto.
Nello sviluppo del racconto, mi ha colpito molto come il tema della guarigione passi attraverso un percorso di incomunicabilità. L’incontro con il ragazzo in realtà avviene perché lei possa insegnargli i primi rudimenti di lingua italiana. Zina non comunica con il padre, mentre riesce a farlo con una persona che non parla la sua lingua. In questo senso, oltre a sviluppare una narrativa interna al racconto, entri prepotentemente nella contemporaneità e, così facendo, oltre a raccontare la storia, ci dici che il problema con l’altro, con il diverso, non è il fatto che lui provenga da una nazione straniera, ma solo una questione di rapporti umani. Laddove ci sono non esiste estraneità.
Per me in un film l’inizio e la fine sono sempre stati momenti topici, e la scena finale è proprio una comunicazione umana. Lei dice delle cose che lui percepisce, pur senza conoscere quella lingua e ci riesce sintonizzandosi sull’emotività della ragazza. Mi piace molto l’idea di due persone che, pur provenendo da culture diverse – perché lei in fondo è profondamente italiana, al di là del fatto che non è nata nel nostro paese -, riescono, attraverso l’aspetto umano, a stabilire una comunicazione in grado di superare ogni altro tipo di barriera, al di là del fatto che siano una ragazza e un ragazzo.
Un’altra qualità che ho apprezzato molto è stata la progressione della guarigione che tu sviluppi su diversi piani. Uno è dato dalla funzione svolta dagli ambienti, in particolare dallo scarto esistente tra quelli utilizzati nella prima e nell’ultima scena. Il primo è un luogo alienante ed estraneo, un cosiddetto non luogo; l’altro è accogliente come può esserlo la casa di un amico e cioè di Mitri. Si tratta di un passaggio che da solo basterebbe a certificare l’avvenuto cambiamento; però, a questi due estremi, tu aggiungi ulteriori gradazioni, ottenute mediante l’utilizzo di luoghi sempre meno freddi; dal bar dove Zina incontra il padre, si passa infatti alla chiesa, fondamentale come nel tuo ultimo film, perché anche qui chiamata a fare da spartiacque nel percorso esistenziale compiuto dai personaggi. Ti chiedo se è stata un tipo di messinscena che hai cercato.
Per tematiche e contesto, La guarigione si pone in perfetta continuità con I passi leggeri. Anche qui al superamento della crisi concorre l’incontro con una figura salvifica. La conoscenza di Mitri da parte di Zina non esclude la componente fisica e sentimentale, ma in realtà quello che conta è la predisposizione ad accogliere l’altro.
Il tuo cinema propone delle soluzioni che oggi sono un po’ in controtendenza, perché comunque l’elemento religioso raffigurato anche nei suoi aspetti liturgici e iconografici non è molto presente nei film contemporanei, mentre ci sono capolavori del cinema in cui questi aspetti sono ricorrenti. Collegare la complessità del reale alla presenza di un amore che passa, anche attraverso un discorso religioso, non è una caratteristica molto comune. Un po’ come non lo è raccontare l’amore senza altro fine che non sia il bene dell’altro.
Sì, era quello che io chiamavo un po’ l’anacronismo de I passi leggeri. Ero consapevole che in quella storia stavo raccontando qualcosa che, come tu giustamente dici, oggi viene raccontata poco e in modi e contesti sociali completamente diversi. Qui la presenza dell’iconografia ortodossa è più legata al fatto che sia uno degli elementi che risveglia in Zina sensazioni vissute nei primi due anni di vita, ma poi dimenticate. Però non mi nascondo il fatto che quella dimensione in certi momenti torna attraverso luoghi che nelle mie storie hanno uno sviluppo importante. Mi rendo conto che non è un processo molto frequente nel cinema di oggi.
La guarigione ci dice che, perché questo succeda, abbiamo bisogno di una guida, di qualcuno che sappia accogliere le nostre fragilità e che riesca a colmare la mancanza dell’aiuto necessario a invertire la rotta.
Anche se non sono un sacerdote e un fervente cattolico, è ovvio che ne I passi leggeri Don Luca sono io, anche se lui ha la sua fede, mentre io sono pieno di dubbi. Nessun personaggio di questa storia è vicino a me nel senso più diretto del termine, però le emozioni, le istanze che stanno dentro questi personaggi mi appartengono profondamente. La necessità di cui parli esiste, però oggi la destiniamo spesso ad altri percorsi, ad altri territori. Per me certi luoghi e certi passaggi hanno ancora un peso, per cui il mio rapporto complicato con la ritualità si ritrova ne I passi leggeri e nella ricerca da parte del protagonista di una forma diversa di spiritualità. Qui la guarigione come termine ha un significato profondo e anche spirituale che sento molto e che però passa attraverso personaggi diversi da me. Credo sia vero quando dici che è anacronistico trovare la salvezza in questi luoghi, ma così è nei miei film.
Nel lungo piano sequenza finale, che nel pianto di Zina mi ha ricordato Vive l’Amour di Tsai Ming Liang, tu decidi di restare su di lei, regalando al personaggio la possibilità di dare corpo alle emozioni provocate da quel momento. A questo punto non possiamo non parlare dell’attrice che l’ha interpretato così, come dei suoi colleghi, anche loro davvero bravi.
Il peso e l’equilibrio che ha all’interno del film è miracoloso ed è cinema d’autore con la A maiuscola. Volevo rimanere sul bianco e nero, perché mi ha colpito. Fino agli anni sessanta tale combinazione è stato il colore della realtà; poi, dopo quegli anni, è diventata una modalità espressionista. Il tuo è un bianco e nero senza troppi contrasti, molto espanso e netto.
Ovviamente, anche qui, sempre come riferimenti alti, il bianco e nero che ho fatto vedere al direttore della fotografia, Francesco Diaz, è stato proprio quello dei primi anni sessanta, del Gianni Di Venanzo e dei film di Pietrangeli. Si tratta di una tonalità molto luminosa e diversa dalla pellicola degli anni cinquanta, che era un po’ più grigiastra. Al contrario, negli anni sessanta, con le nuove pellicole, si afferma questo bianco e nero molto limpido, utilizzato per esempio ne La dolce vita. Ecco, io gli ho fatto vedere i film di Pietrangeli e gli ho detto che lo volevo uguale. In questo mio piccolo racconto, esso mescola la sensazione di malinconia sottile e di nostalgia di qualcosa che si è perso con la luminosità che richiama il concetto di guarigione, per la presenza di una limpidezza che porta verso la luce. Mi rendo conto che questa cosa è molto personale, non universale. La guarigione inizia in una discoteca buia, per poi arrivare al primo piano finale di lei, che è invece luminosissimo e quindi l’idea è quella di una luce che porta verso questo finale. Il bianco e nero mi sembrava giusto, perché metteva insieme le suggestioni cinematografiche del passato, ma anche la nostalgia di qualcosa che però lei non ricorda. Perché poi la cosa interessante è che alla fine lei dice a Mitri; “ Vorrei essere stata piccola con te”, alludendo al fatto che forse si sono conosciuti quando erano bambini.
Quella frase è una maniera bella e inedita di esprimere la poesia dell’amore.
Per quello che abbiamo detto mi sento di definire il tuo un cinema sentimentale, nell’accezione più alta del termine. È una definizione che ti trova d’accordo?
A me piace, anche se spesso il termine viene usato in senso negativo. In questo caso mi piace e penso che si tratti di un concetto da rivalutare, nel senso che con il passare del tempo ho avuto voglia di raccontare i sentimenti, nell’ambito di un percorso caratterizzato da un calore sempre più forte. Una volta, rispetto al melodramma cinematografico ero molto bloccato, molto restio; rifiutavo determinate cose. Nel tempo ho scoperto che il melò in qualche modo è un genere che mi piace tantissimo. Ovviamente La guarigione non lo è, però ora non mi spaventa più che i sentimenti vengano a galla. Una volta ero più trattenuto e raffreddavo verso la materia delle mie storie, mentre adesso mi piace fare uscire fuori le sue emozioni. Dunque l’aggettivo mi piace molto.
Ho trovato straordinaria la scelta di attori italiani chiamati a interpretare personaggi stranieri. La meraviglia nasce dal fatto che poi sullo schermo risultano del tutto verosimili.
Approfittando del fatto che oltre ad essere regista sei anche un professore e insegni cinema, volevo chiederti di dirmi il titolo di un film che hai visto di recente e perché ti è piaciuto
Ho visto diverse cose che mi sono piaciute. Un film che ho amato, che sento la necessità di rivedere, e di riscoprire, è Undine di Christian Petzold. È un’opera che magari non mi è piaciuta tantissimo, però molte scelte mi hanno colpito, a partire da quella scena iniziale dell’addio tra lei e il fidanzato, che entra subito in quel modo. Io sono sempre molto stupito dai film che cominciano subito con qualcosa che di solito arriva sempre un po’ dopo. Ho rivisto da poco Gloria Mundi di Robert Guédiguian e anche questo mi ha colpito. L’ho trovato particolare. Però, se devo dirti la più grande emozione degli ultimi due mesi, è stata rivedere un film del regista che più amo e cioè Truffaut. Parlo di Adele H. che, non so perché, mi rimaneva sempre un po’ distante. Rivederlo mi ha invece emozionato moltissimo. È proprio vero che i film cambiano come cambiamo noi nel tempo. Quella storia di amore folle e ossessivo e il modo di girarla tutta su di lei è stata una riscoperta emotivamente molto forte.