The Gentlemen ricorda i primi lavori di Ritchie, un po’ per lo stile e il ritmo, un po’ per l’appartenenza a un cinema meno meanstream, rispetto per esempio ai due Sherlock Holmes o a King Arthur. Di quest’ultimo titolo ritrova l’attore protagonista, inserendolo stavolta in un contesto realistico e popolato di piccoli e grandi criminali.
Guy Ritchie torna alle sue origini
Charlie Hunnam veste i panni di Raymond, braccio destro di Mike Pearson (interpretato da un Matthew McConaughey in grande spolvero) e incaricato di fare in modo che gli affari del capo non subiscano intoppi. Quando però viene contattato da Fletcher (Hugh Grant), un investigatore privato eccentrico e a caccia di soldi, Raymond dovrà giocare d’anticipo e sfruttare il carattere doppiogiochista dell’altro per far sì che tutto fili liscio, o quasi.
La scelta di sviluppare la narrazione sotto forma di racconto risulta efficace solo in parte: se il gioco a incastri, come fossero scatole cinesi, permette un certo tipo di ritmo e di ordine, spesso la narrazione spezzettata diventa faticosa da seguire e ostacola in qualche modo la fruizione. D’altro canto però il numero di personaggi che prendono parte alle vicende hanno reso forse necessario questo modus operandi. Ciò che comunque si nota e apprezza è una crescita costante via via che si va avanti nella storia.
The Gentlemen: nel regno della giungla devi essere il re
Interessante anche la similitudine, più volte proposta, tra l’umanità e il regno della giungla, abitati entrambi da prede e predatori. È tutta questione di imprinting. “Se desideri essere il re della giungla, non puoi solo comportarti come un re, devi essere il re”. Così esordisce Mike Pearson, descrivendo alla perfezione la sua personalità. L’ambizione lo ha portato a divenire quello che è adesso, al di là delle sue origini umili. Questo perché parte da qualcosa dentro di lui, qualcosa di innato e inarrestabile. Non c’è nemico che possa destituirlo, seppure a tentare siano in molti. È quindi lui il fulcro attorno a cui il resto delle figure ruota, direttamente o indirettamente.
Impeccabile da questo punto di vista il contributo del casting, capace di abbinare e adattare il volto giusto a ciascun personaggio. Una spanna sopra a tutti Michelle Dockery versione femme fatale.
Rimandi e citazioni si susseguono: dalla strizzata d’occhio alla sua stessa cinematografia – vedi il poster di Man from U.N.C.L.E. – ai poliziotteschi degli anni Settanta, fino a William Shakespeare e a serie tv contemporanee quali per esempio Ray Donovan o Peaky Blinders, Ritchie confeziona un’opera stratificata, accattivante e debitrice di uno humour d’altri tempi, alquanto british.
A livello registico nonché stilistico, la mano del cineasta non è inconfondibile come in altri suoi lavori, eccezion fatta per alcuni momenti alla Lock & Stock che hanno effettivamente fatto scuola. Ma resta alta la levatura del progetto, sorta di omaggio alla cultura del cinema e alle iconiche figure (di gangster) che esso ha sfornato nel corso dei secoli.
“Ingentiliti” o meno, il loro fascino non tramonta mai.