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Colpi di scena e verità nascoste ne La verità sul caso Harry Quebert

Jean Jaques Annaud dietro alla macchina da presa per questa serie thriller tratta dal bestseller scritto da Joel Dicker: guilty pleasure tra colpi di teatro

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Viene spontaneo, quando un’opera audiovisiva viene da un referente letterario (o da altro media), fare i paragoni tra “originale” e “copia”. Dimenticando però una cosa importante, e facendo anche un grave torto al cinema – o alla tv, che di questi tempi è un po’ uguale mentre i confini si assottigliano- e sminuendo il suo valore e la sua autorialità. La verità sul caso Henry Quebert è un po’ come Il Nome Della Rosa, insomma: e non a caso, probabilmente, in entrambi i casi dietro la macchina da presa troviamo Jean Jacques Annaud.

Che è un autore grandissimo, certo, anche se non scevro da difetti: che sa comunque evitare quando è ispirato. Perché lui vorrebbe ricreare il grande romanzo europeo, colmo di suggestioni ed echi sinestetici: e quando evita la trappola della calligrafia, vengono fuori cose egregie. Probabilmente, il libro di Joel Dicker deve essergli piaciuto parecchio: perché era un bel po’ che il regista non girava in maniera così appassionata, riuscendo a bilanciare perfettamente dentro e fuori, ovvero paesaggi affrescati con una fotografia e scenografia delicatissime con geografie dell’anima oscure e dimenticate.

La Verità Sul Caso Henry Quebert è diverso dal libro, ma non per questo meno bello o efficace, essendo come due punti di vista differenti sulla stessa materia narrativa.  E se la forza del libro, magmatico e vischioso, risiede nella descrizione dei caratteri dei personaggi, incredibilmente vivi, profondi, aggrovigliati intorno a loro stessi, la serie tv invece è un classicissimo thriller (dell’anima, aggiungerebbe qualcuno) che mantiene le sue promesse e si tiene stretto nel suo archetipo, ovvero quello di romanzo di genere.

Nessun intento moralizzatore, nessun sottotesto se non quelli più evidenti, nessuna voglia di racchiudere nelle sue dieci puntate un’umana commedia rappresentata dallo scrittore Quebert che allaccia una relazione proibita e nabokoviana con una quindicenne e trent’anni dopo che lei è scomparsa misteriosamente i suoi resti vengono trovati seppelliti nel suo giardino; qua siamo in zona gialla, e chi guarda non riesce a distogliere lo sguardo prima della conclusione della puntata dieci.

Certo, scorrono sottopelle interessanti spunti come l’ineffabilità della verità: nascosta dalla trasfigurazione letteraria, prima di tutto, e poi dal vissuto, dai ricordi, dai diversi punti di vista (un po’ come succedeva in The Affair, ma lì era il nucleo dell’opera).

Ma invece, come in un epigono di Twin Peaks qualunque, si è tirati dentro nelle beghe familiari e di paese da una narrazione scorrevole e densa allo stesso tempo: Annaud è un autore di paesaggi, e ogni sua composizione è un piccolo quadro con all’interno, come capitati per sbaglio, i personaggi. Che sembrano, questo sì, tagliati con l’accetta: lo scrittore affascinante e misantropo, il giovane talentuoso ma svogliato e milionario, la lolita in fregola e con diversi segreti, e via discorrendo di clichè in clichè. La sceneggiatura non li aiuta ma l’intreccio sì.

Colpi di scena e incredibili svolte poliziesche rendono La Verità Sul Caso Henry Quebert un prodotto seriale di alto livello, quasi un divertissement, un guilty pleasure, come se essere un ottimo prodotto d’intrattenimento possa essere una colpa. Diversi echi riportano poi a True Detective e a tanta narrativa seriale moderna, su tutti l’atmosfera di morbosa inquietudine e la dislocazione su tre differenti piani temporali: anche qua, clichè risaputi ma costruiti benissimo, senza una sbavatura che possa distrarre lo spettatore dal voler proseguire la personale indagine su Henry Quebert. Che poi, ognuno si crei la sua verità.

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