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Nori Corbucci: il ricordo del grande Sergio

DA UOMO A UOMO, terza puntata. “Nori Corbucci: il ricordo del grande Sergio”. Giovanni Berardi incontra Nori Corbucci, moglie del compianto Sergio, e insieme a lei ripercorre la produzione cinematografica del regista, spaziando dall’ottimo esordio nel western, che aprì la strada in Italia a tanti altri autori, fino a tutti quei film che Corbucci realizzò con attori di notevole statura, primo fra tutti Totò, ma anche Giancarlo Giannini, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Terence Hill e Bud Spencer e tanti altri. Diceva Fellini: “Bisogna inchinarsi davanti a Corbucci, perchè di Totò si parlerà sempre, e quindi anche di Corbucci”.

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DSCN0264Nori Corbucci e Giovanni Berardi

La moglie Nori lo ha detto chiaro, chissà come sarà contento, ora, Sergio Corbucci, morto a Roma il 2 dicembre 1990, della tanta comprensione intorno alla sua filmografia, lui che in vita non è stato mai abbastanza capito, abbastanza considerato e mai abbastanza festeggiato. Anzi come tutti i registi cinematografici di quel contesto, che noi sottolineamo magnifico e godibilissimo, definito commerciale (confessiamo di non sapere Bene ancora cosa significa), la sua opera è sempre stata denigrata ed etichettata. Nori, oggi affermata scrittrice, si è sempre spesa affinchè il patrimonio artistico di Sergio Corbucci trovasse la giusta dimensione nel mondo culturale, nel mondo della storia del cinema. Il lavoro di Nori, sibillino ma concreto, deciso, puntuale, in fondo è stato deputato ed essenziale a questo fine. Noi pensiamo che il riconoscimento, anche internazionale, che Sergio sta ottenendo, sia frutto sicuramente anche del lavoro di Nori, della sua continua testimonianza.

Sergio Corbucci è stato un regista dalle molte facce, dalla grande inventiva, dal sorridente cinismo, ha attraversato quarant’anni di cinema italiano con l’unica ambizione di fare dei buoni prodotti per divertire o appassionare la gente, mai ha preteso di essere un autore, bensì un artigiano esperto di tutti gli effetti del cinema. Non era un mistero che tra gli estimatori della carriera di Sergio Corbucci c’era Federico Fellini. Infatti Nori, da grande appassionata, ci rivela come Antonello Trombadori, autorevole critico d’arte e grande appassionato di cinema, nonché noto esponente politico degli anni settanta, incontrati in Via Margutta Fellini e Corrucci, non esitò a presentarsi davanti al primo, accompagnandosi ad una riverenza esibita, una sorta di inchino che Fellini subito gli rimandò: “guarda che devi inchinarti piuttosto a Corbucci, perché è di Totò che si parlerà sempre, e quindi anche di Corbucci. Di me non so…” Ma non era proprio così vera questa affermazione, non per Fellini, che veramente apprezzava e stimava Corbucci ed il cinema che piaceva al popolo, ma per il contesto culturale dell’epoca. Tanto per cominciare i film di Corbucci, come quelli di tanti altri registi di genere, non venivano quasi mai visti davvero dai critici, nei loro giornali ne trattavano solo superficialmente – chissà su quali falsi e generici criteri poggiavano le loro recensioni – ma questa era una visione comune, una cultura ormai egemone per il periodo.

Eppure, Corbucci ha firmato film di statura internazionali e con il suo cinema western è stato un po’ il contraltare di Sergio Leone. Corbucci più dedito alla esasperazione, alla crudeltà come strumento narrativo, al fango, al sudore, alla puzza, mentre Leone era piuttosto sole, sabbia, prateria sterminata. E c’è da dire che proprio con il cinema western che Corbucci raggiunge le vette più alte della sua narrativa, Minnesota Clay (1965), Django (1966), Johnny Oro (1966), I crudeli (1967), Navajo Joe (1967), Il mercenario (1968), Il grande silenzio (1968), Gli specialisti (1969), Vamos a matar companeros (1970), La banda J. e S, cronaca criminale del Far West (1972), Che c’entriamo noi con la rivoluzione (1973), Il bianco, il giallo, il nero (1975).

E infatti, Nori ci racconta che proprio il western era, tra tutti i generi affrontati da Sergio, quello che lo rappresentava meglio, quello dove si sentiva veramente ispirato. “Per Sergio quella del western era la strada buona” dice Nori “e poi si divertiva come un pazzo a far muovere i cavalli, gli indiani, le pistole. E proprio con il genere western Sergio poteva meglio esprimere la sua passione per la rivoluzione messicana e l’amore per il suo eroe, Emiliano Zapata”.

Noi diciamo che, grazie ai western realizzati da Corbucci nei primi anni sessanta, al loro grosso successo anche internazionale, altri autori trovarono il mercato liberato e pronto a ricevere altri film western di chiaro impianto ideologico e politico, pensiamo a film come Faccia a faccia (1967), La resa dei conti (1967), Corri uomo corri (1968) di Sergio Sollima, Requiescant (1967) di Carlo Lizzani, Tepepa (1969) di Giulio Petroni, Se sei vivo spara (1967) di Giulio Questi, Quien Sabe? (1967) di Damiano Damiani, Il prezzo del potere (1969) di Tonino Valerii.

Nori sconfessa inoltre il fatto, da più parti ribadito in questi anni, ed abbastanza comune a tanti altri artigiani dello schermo, che anche Sergio sia stato, in qualche modo, costretto ad affrontare tutti i generi sorti in Italia. “Assolutamente no” dice Nori “Sergio amava talmente questo mestiere che la sua vita era davvero sul set. Non poteva resistere senza. Stava male quando i produttori tardavano a chiamarlo. E per questo, a volte, sceglieva anche opere non proprio dignitose, un po’ sbrigative ed arraffazzonate, perché non sempre i film partivano da lui, non sempre era lo sceneggiatore di ciò che girava. Questa voglia di stare continuamente sul set lo ha portato ad avere, nella sua filmografia, tanta quantità, talvolta a discapito della qualità. Ed io, per questo, mi arrabbiavo molto con lui. Perché certi film non sono assolutamente all’altezza della sua intelligenza e della sua cultura”.

Nori ci ha spiegato che Sergio fin da bambino provava grande interesse e divertimento ad allestire per gioco il teatro dei burattini, qualunque spazio era un proscenio, e lì si lasciava andare, giorno dopo giorno, a raccontare e inscenare vere e proprie storie da film, vere e proprie piccole commedie. E, infatti, noi pensiamo che non solo con i western, ma anche con la commedia ed il comico puro, Corbucci abbia dato il meglio di sé, prova concreta ne erano i tanti film diretti con Totò protagonista. Spiega Nori: “Il principe (Totò amava farsi chiamare principe), era davvero esigente con i registi che dovevano dirigerlo. Doveva, in primo luogo, essere convinto della loro cultura ironica, della loro visione spiritosa…”  E, con il principe Corbucci ha girato ben sei film, Chi si ferma è perduto (1960), I due marescialli (1961), Totò, Peppino e la dolce vita (1961), Lo smemorato di Collegno (1962), Gli onorevoli (1963), Il monaco di Monza (1963).

Nel frattempo Corbucci ha navigato proprio con solerzia nella grammatica del cinema di genere, ha avuto meriti indiscussi nella crescita attoriale di personaggi della canzone quali Adriano Celentano, ad esempio, con cui girerà sei film, Il monaco di Monza (1963), Er Più, storia d’amore e di coltello (1971), Di che segno sei (1975), Bluff, storia di truffe e di imbroglioni (1976), Ecco noi per esempio (1977), Sing Sing (1983); Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, con Il giorno più corto (1962), I figli del leopardo (1965); Terence Hill e Bud Spencer, con Pari e dispari (1978), Chi trova un amico trova un tesoro (1981), e nella commedia gialla più movimentata, con La mazzetta (1978), Giallo napoletano (1979), I giorni del commissario Ambrosio (1988), come in quella più autorevolmente classica, con Non ti conosco più amore (1980), Mi faccio la barca (1980), Il conte Tacchia (1982), Night club (1989), ha toccato corde di indiscusso valore tecnico artistico.

La poetica del regista, il senso dello spettacolo di Sergio Corbucci ha poi raggiunto vertici altissimi in film quali, Il bestione, ad esempio, una storia tragicomica di perfetta aderenza sociale al periodo storico in cui è stata realizzata. Ne Il bestione, secondo noi, si consacra proprio la crescita e la maturità di un attore importante per il cinema italiano quale è Giancarlo Giannini. Proprio in questo film, più che in altri, Giannini è l’attore mattatore ed istrionico, impennato e deluso, ma sempre misurato, dentro i limiti del buffo e del tragico, segno che il regista ha avuto la mano per contenere la marcata esibizione d’attore. Il bestione è uno di quei film che segna nettamente il valore antropologico di cui solamente il miglior cinema di genere è, secondo noi, portatore.

Giovanni Berardi

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