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Fratelli d’Italia

«Claudio Giovannesi, con “Fratelli d’Italia”, cerca di affrontare la questione dell’immigrazione nel nostro paese, attraverso il racconto delle storie di tre ragazzi».

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Claudio Giovannesi, reduce dall’interessante lungometraggio La casa sulle nuvole (2009), presentato all’ultima edizione del Med Film Festival, torna alla sua formazione originaria, quella di documentarista (Welcome Bucarest del 2007, L’uomo uccello e I gabbiani del 2005), con Fratelli d’Italia, in cui, attraverso il racconto delle storie di tre ragazzi, cerca di affrontare la questione dell’immigrazione nel nostro paese.

Alin è un diciassettenne rumeno che vive in Italia da quattro anni, intrattenendo un rapporto molto conflittuale con i compagni di classe e i docenti; Masha, diciottenne, bielorussa, adottata da una famiglia italiana, vorrebbe partire per incontrare il fratello che ancora non conosce; Nader, sedicenne, egiziano, nato a Roma, è fidanzato con una ragazza italiana contro il volere dei suoi genitori.

Probabilmente, tra le tre vicende narrate, la più significativa è quella di Nader, poiché pone all’attenzione una faccenda sempre più attuale, quella degli immigrati di seconda generazione.

L’evoluzione antropologica avvenuta negli ultimi anni in Italia tratteggia scenari inediti, che necessitano di un’attenta valutazione per comprendere le caratteristiche di un fenomeno decisivo nel delineare i rapporti di convivenza delle differenze. I nuovi immigrati, a tutti gli effetti cittadini italiani, richiedono, sacrosantamente, di essere riconosciuti come tali, e le diversità culturali, religiose ed etiche che una volta rivendicavano, divengono, ora, qualcosa che essi stessi vivono come un impedimento.

Il famoso multiculturalismo, da sempre gaiamente sventolato dai progressisti dell’ultima ora, rivela tutta la sua inconsistenza concettuale, giacché il problema non consiste nel far coesistere armoniosamente realtà disuguali, ma nell’agevolare un processo di laicizzazione che ci liberi, finalmente, dalla iattura delle differenze. Non più cattolici, musulmani, ebrei, ma cittadini che sanno cooperare creativamente, sviluppando la propria e l’altrui personalità, attraverso la comunicazione e la condivisione. In questa prospettiva appare evidente l’inadeguatezza delle sovranità nazionali a gestire un mutamento radicale che necessita di spazi globali, attraversabili liberamente da flussi migratori e merci.

Il capitalismo cavalca le differenze fino a che permane un margine di profitto: sfruttamento, guerre, gerarchie di potere; nel momento in cui queste condizioni cessassero, non si esiterebbe un momento ad integrare qualunque individuo, purché, una volta assorbito all’interno dei meccanismi di produzione, generi indefinitivamente arricchimento. Magari cambieremo il colore della pelle, ma non i rapporti di produzione. È una tendenza, questa, inarrestabile, anche se, troppo spesso, facciamo finta di non capire.

La cina è vicina diceva Marco Bellocchio, e ora lo è più che mai. Bisogna far spazio a chi ha energia vitale da vendere, e non come la gerontocrazia italiana che, imperterrita, non molla i propri scranni, lasciando le nuove generazioni in balia del vuoto di un futuro che inghiotte. E non basteranno tutte le guerre mosse dall’esanime alfiere dell’ordine imperiale (USA) ad interrompere un movimento inarrestabile. Diceva Karl Marx: «Il comunismo non è un’idea alla quale, alla fine, la realtà dovrà conformarsi, ma il movimento reale di mutazione dello stato di cose presente». Dobbiamo cominciare ad accettare l’idea di dividere la torta con tutti coloro che, fino ad ora, non ne hanno  assaggiato neanche una fetta.

Luca Biscontini

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