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‘Buffalo ’66’ non è una storia d’amore (ed è per questo che funziona)
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4 ore agoon
Billy è colpevole, ma non lo è.
Billy è sposato, ma non lo è.
Billy è innocente, ma non lo è.
Billy è amato, ma non lo è.
Billy è figlio, ma non lo è.
Billy è crudele, ma non lo è.
Billy è solo, ma non lo è.
Billy è e non è.
Billy è tutto e il contrario di tutto. Billy è una contraddizione vivente. Billy è una menzogna che tenta disperatamente di diventare verità. Billy è la disperazione fatta persona: dolore che cammina.
Billy è un uomo incastrato tra ciò che non è mai stato e ciò che avrebbe dovuto essere.
Billy è.
Ma più di ogni altra cosa non vorrebbe più essere.
Buffalo ’66 è il folgorante esordio alla regia di Vincent Gallo, artista poliedrico e a dir poco controverso, che firma uno dei ritratti più spietati del cinema indipendente di fine anni ’90. Un film triste, tristissimo, scolorito e spigoloso, attraversato da un’ironia malata, in cui Gallo mette in scena il dramma di un uomo divorato dal risentimento, dalla vergogna e da una rabbia che non trova mai un bersaglio giusto.
Quando lo incontriamo, Billy esce di prigione dopo cinque anni. Una condanna che non sente sua, scontata al posto di un altro, accettata come si accetta una sentenza cosmica: senza appello, senza redenzione. Quel tempo sottratto alla vita non è mai stato elaborato. È rimasto lì, a fermentare. E ora chiede il conto.
Peccato però che sull’impervia e imprevedibile via dell’autodistruzione Billy incontri un angelo: Layla.
Buffalo ’66 – La prigione non finisce mai
Billy non esce davvero dal carcere. Se lo porta addosso.
La prigione di Buffalo ’66 non è solo un luogo fisico, ma una condizione mentale, un assetto permanente dell’anima. È uno spazio che Billy abita da sempre, ben prima della condanna ufficiale, e che continua a frequentare anche dopo la scarcerazione. Le sbarre sono interiorizzate, la sorveglianza è diventata automatica, la pena infinita.
Billy non ha mai conosciuto la libertà, solo diverse forme di reclusione.
La sua violenza non è esplosiva: è compressa, implosa, trattenuta a fatica. È una rabbia che non trova mai uno sbocco chiaro, che non sa dove dirigersi e finisce per colpire chiunque si trovi a portata di mano — soprattutto chi prova ad avvicinarsi. È la rabbia di chi si sente derubato della propria vita, di chi ha scontato una pena che percepisce come profondamente ingiusta, di chi è rimasto fermo mentre gli altri andavano avanti.
Billy guarda il mondo come un luogo che lo ha tradito. E quel tradimento non è mai stato elaborato.
Layla (Christina Ricci) e Billy sul vialetto di casa dei genitori di Billy
Buffalo ’66 – Dolore, dolore, dolore
C’è un rancore specifico, corrosivo, che attraversa tutto il film: l’odio nei confronti di chi ha piegato la testa pur di sopravvivere. Billy ha scelto — o crede di aver scelto — la rigidità, l’orgoglio sterile, l’autosabotaggio. Ha pagato quella scelta con anni di vita, ma invece di trasformare quella perdita in consapevolezza, l’ha cristallizzata in risentimento.
Billy, dunque, non perdona. E soprattutto non perdona sé stesso per non aver saputo fare diversamente.
La prigione, allora, non è solo il passato: è il modo in cui Billy si relaziona al presente. Ogni gesto è difensivo, ogni parola è un attacco preventivo, ogni relazione è vissuta come una minaccia. La libertà lo terrorizza più della cella, perché implica responsabilità, possibilità, fallimento.
Essere liberi significa poter scegliere. E Billy, di scegliere, ha sempre avuto una paura folle.
Buffalo ’66 non parla di vendetta, bensì di stasi. Non racconta un uomo che vuole ribellarsi al mondo, ma un uomo che non sa più come starci dentro. Un uomo che ha fatto del proprio dolore una casa, e che fatica a immaginare un’esistenza al di fuori di quella prigione invisibile che lo definisce.
Il padre di Billy (Ben Gazzara) e Layla
Un uomo che non sa amare…
Ma, più di ogni altra cosa, Buffalo ‘66 racconta di un uomo che non è in grado di amare perché la vita gli ha sempre e solo insegnato ad amare male. Ad amare di traverso. Ad amare come si stringe un’arma.
In Billy, amore e odio non sono mai stati separati. Si sono sovrapposti, confusi, saldati l’uno all’altro fino a diventare indistinguibili. L’amore, per lui, è sempre stato un sentimento doloroso, un motivo di umiliazione, un prezzo da pagare in anticipo.
E così Billy ha imparato a colpire prima. A ferire per non essere ferito. A controllare per non essere abbandonato.
Billy racchiude in sé la figura più disturbante di tutte: quella della vittima che diventa carnefice senza mai smettere di sentirsi vittima.
È genuinamente una persona orribile, il nostro Billy. Non perché sia sadico o crudele per vocazione, ma perché non conosce altro linguaggio che non sia quello della violenza emotiva.
Billy al telefono col suo amico Sonny
…perché nessuno glielo ha mai insegnato
Billy infatti fa la cosa peggiore che si possa fare: ferisce chi lo ama davvero, non curandosi delle conseguenze delle sua azioni.
Piega chi lo ama senza condizioni, senza mai chiedere nulla in cambio Eppure Billy non nasce così. Billy è il prodotto perfettamente riuscito di un’educazione sentimentale fallita.
I suoi genitori sono il vero orrore del film. Non perché urlino o picchino, ma perché distruggono con precisione chirurgica. Sono il male banale, quello che non lascia lividi ma crea vuoti. Quello che non grida, ma sviscera. Quello che non uccide, ma impedisce di vivere. Billy è il figlio sano del dolore, è tutto ciò che poteva diventare crescendo in quel deserto affettivo. Dal dolore, se non viene attraversato, nasce solo altro dolore.
Questo, però, non lo assolve. Lo spiega. Ma non lo giustifica mai. Perché la sofferenza subita non legittima la sofferenza inflitta. E soprattutto non giustifica il male fatto a chi, nonostante tutto, sceglie di restare.
Layla, Wendy Balsam (Rosanna Arquette) e Billy ad una tavola calda
Layla: l’amore che resta (anche quando non dovrebbe)
Billy non merita Layla. Lei lo ha sempre saputo, eppure lo ama comunque.
Layla è l’amore che non chiede spiegazioni. L’amore che non pretende guarigioni immediate. L’amore che guarda il mostro e decide di restare comunque. È l’amore che confonde la comprensione con il sacrificio, la pazienza con l’annullamento.
È l’amore che crede — ingenuamente, disperatamente — che basti amare abbastanza per salvare qualcuno.
Layla diventa lo spazio in cui Billy può essere orribile senza conseguenze immediate. Il luogo sicuro in cui sfogare tutto ciò che non ha mai elaborato. Il corpo e l’anima su cui testare fino a che punto è possibile essere amati senza restituire nulla.
E Layla viene ferita e ferita ancora. Non perché non capisca, ma proprio perché capisce troppo.
Buffalo ’66 è spietato proprio in questo: mostra che l’amore non basta, non sempre. Non quando diventa un alibi per non cambiare. Non quando viene usato come contenitore del dolore altrui. Layla non è una santa, non è un’eroina: è una persona che ama e per questo si espone, si consuma, si perde.
E quando Billy la abbandona, compie l’atto più coerente con ciò che è sempre stato. Perché chi non sa restare, prima o poi se ne va. Anche quando non vorrebbe.
Layla nella celebre scena di ballo al bowling
Buffalo ’66 – Moving wheels
Alla fine, però, qualcosa si incrina: non una redenzione, non una guarigione ma una consapevolezza.
Billy capisce che continuare a fare male non è inevitabile. Che il dolore può smettere di circolare, anche se non scompare. Che si può scegliere di non trasformare ogni ferita in un’arma. È un momento fragile, instabile, precario. Ma è reale.
Non a caso Moonchild dei King Crimson attraversa il film come un lamento sospeso:
“I’m wheels, I am moving wheels,
I am a moonchild.”
Billy è esattamente questo: un essere incompiuto, in movimento, incapace di fermarsi del tutto ma finalmente consapevole della direzione. Non guarito e non salvo. Ma per la prima volta non completamente prigioniero di sé stesso.
Billy è e non è. E in quella contraddizione, in quella relazione imperfetta e pericolosa, il film trova la sua verità più dolorosa: a volte l’amore non salva, ma può impedire, anche solo per un attimo, di distruggersi del tutto.
E per chi ha vissuto una vita intera nella distruzione, quell’attimo è già una forma di grazia.