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L’arte fa esistere: intervista a Oleksandra Horobets a Ultracinema
Oleksandra Horobets presenta il suo film
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4 ore agoon
Oggi creare un’opera propria è diventato semplice e immediato, grazie a tecnologie accessibili a tutti, anche ai più giovani. Ciò che sembra essersi complicato, semmai, è riconoscere l’arte e la bellezza nel flusso incessante di miliardi di immagini che attraversano ogni giorno i nostri schermi. Proprio da questa esigenza nasce Ultracinema Art Festival, alla sua primissima edizione, ideato da Jonny Costantino e svoltosi a Ferrara dall’11 al 13 dicembre. Un festival che ha riunito giovani artisti capaci di restituire una visione cinematografica “che va oltre”, libera e bastarda, senza paura né inibizioni. Durante la prima giornata, nella sezione ultrashort, è stata presentata Ho paura di disegnare mia madre, opera della giovane autrice ucraina Oleksandra Horobets.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare Oleksandra per conoscere più da vicino la sua visione e riflettere sul significato dell’arte oggi: da come nasce un’opera alla sua forza nel clima politico contemporaneo, fino al legame tra l’autrice e ciò che ha realizzato.
Jonny Costantino e Oleksandra Horobets a Ultracinema Art Festival. Immagine gentilmente concessa dal festival.
Il legame che unisce (o separa) l’arte dalla politica
Quale pensi possa essere l’impatto politico dell’arte oggi?
Forse partirei da quello che penso dovrebbe essere l’impatto dell’arte oggi, più che da quello che effettivamente è. Varia molto in base al luogo in cui viene prodotta, al tempo, allo spazio e soprattutto a chi la produce, ma anche da chi la fruisce.
L’impatto dell’arte, idealmente, è quello che forma il pensiero, contribuisce alla creazione dell’identità stessa, non so se mi spiego. Appartenere a una cultura riconoscibile dagli altri significa avere diritto all’esistenza, crea una sorta di passaporto culturale senza il quale non esisteresti.
Oggi l’arte viene spesso strumentalizzata dalla politica, oltre che banalizzata. Allo stesso tempo è anche un prodotto, qualcosa che deve essere venduto, e le regole del mercato influenzano radicalmente ciò che l’arte è o vorrebbe essere.
L’impatto politico resta comunque una risposta vaga. C’è chi direbbe che il politico è in ogni cosa. Altri, che l’arte è una testimonianza di ciò che accade, una risposta spontanea al contesto, senza un intenzionalità diretta.
Forse, per rispondere davvero a questa domanda, bisognerebbe studiare l’arte nel corso della storia. Probabilmente potremo avere una risposta ben delineata solo tra anni. Guardare le cose con una certa distanza aiuta.
Il potere delle immagini e dei loro significati
È possibile fare arte senza implicare una manipolazione dello sguardo o del pensiero dello spettatore? Dove si colloca il confine tra influenza, interpretazione e manipolazione?
Per me influenza, interpretazione e manipolazione sono concetti collegati, ma molto diversi.
La manipolazione, è un atto di controllo. Avviene quando io, come artista, decido di guidare un significato o uno sguardo attraverso immagini o dispositivi precisi, imponendo una sorta di gioco all’interno dell’esposizione. L’influenza nasce quando questo gioco funziona con una persona in particolare, quando tra me e lo spettatore accade qualcosa.
L’interpretazione è inevitabile e viene prima dell’influenza. Lo spettatore interpreta la mia manipolazione e, in base a questo, può essere influenzato o meno. L’influenza è, quindi, una conseguenza dell’interpretazione.
Non penso che l’arte sia una manipolazione del pensiero dello spettatore. Non credo che lo spettatore sia facilmente manipolabile. L’arte può e deve smuovere domande, sensazioni, emozioni, ma il pensiero non può essere manipolato come avviene con la propaganda. Fare propaganda non è fare arte. L’arte è piuttosto un riflesso.
Quando parlo di manipolazione, per me si tratta di un gioco di controllo interno alle esposizioni, un modo per osservare come le persone si sentono all’interno di un sistema di regole da me imposte, se lo accettano o meno. Non è finalizzato a raggiungere un obiettivo, ma a comprendere.
Inoltre, credo che spesso sia lo spettatore a manipolare l’arte. Quando leggiamo un libro o vediamo un film non è mai un assorbimento unilaterale, ma un dialogo, tra me e l’autore, tra me e il momento preciso della mia vita. Ciò che ricevo non dipende solo da ciò che l’artista ha fatto, ma dalla mia esperienza precedente, dal periodo che sto vivendo, dal motivo per cui ho scelto proprio quell’opera in quel momento.
Il concetto di Vitarte a Ultracinema Art Festival
Quali sono le intenzioni che guidano la tua ricerca artistica e verso quali direzioni senti di volerla sviluppare?
È una domanda molto difficile. Banalmente, a volte vorrei non fare la mia ricerca artistica (anche perché il mondo esisterebbe tranquillamente e felicemente senza), ma sento di non poter fare altrimenti. Anche quando provo a fermarmi, sento di non riuscire realmente.
Dire che non ho intenzioni specifiche sarebbe una bugia, anche se non sono sempre chiaramente definite. In questo momento sto lavorando attivamente sulla selezione e traduzione (manipolazione, ri-scrittura) di autori ucraini mai pubblicati o divulgati, soprattutto in Europa. Una forma di testimonianza, dare accesso alla conoscenza, dichiarare l’esistenza.
Oleksandra Horobets: uno sguardo curioso e lucido
Per quanto riguarda l’altra parte della ricerca, più personale, in questo momento (tra le tante cose) sto lavorando su un progetto che mi piacerebbe approfondire attraverso la ricerca accademica (PhD practice-based). Quella che sto trattando è intitolata Recipes for a Practice of Resistance, Using Gossip as Methodology to Investigate the Aftermath of Forced Famine, ricerca artistica che indaga l’impatto psicosomatico transgenerazionale dell’assenza di cibo forzata, attraverso un approccio storiografico femminista. Facendo riferimento ai quadri teorici della biopolitica e della necropolitica (Foucault, Mbembe), il progetto interpreta la carestia non semplicemente come assenza di cibo, ma come una tecnologia strategica di controllo. Questa ricerca affronta tali lacune ponendosi la domanda: “In che modo la storica privazione di cibo modella la memoria incarnata contemporanea e come può essere indagata attraverso pratiche artistiche immersive e strategie d’archivio alternative?”
So di non poter fornire risposte precise, sarebbe presuntuoso. Non sono una specialista in neuroscienze o biologia. La mia intenzione non è raccontare una storia che già conosciamo, ma dare voce a chi non ha potuto raccontarla, cambiando il punto di vista attraverso la creazione di gossip protocol, un quadro metodologico che sfrutta il potenziale epistemologico della diceria. Questo approccio comporta la raccolta, l’analisi e la diffusione di narrazioni non ufficiali attraverso pratiche artistiche partecipative.
I cinque sensi e il loro ruolo nella ricerca
L’approccio interdisciplinare unisce narrazione partecipativa e risignificazione narrativa per mettere in discussione e alterare le visioni dominanti su privazione e resistenza. Sottolinea come l’arte possa evocare e sfidare le radici storiche di disumanizzazione e controllo. L’uso di forme artistiche non figurative mira a evocare l’esperienza fisica della privazione, anziché rappresentarla in modo letterale. Ciò è coerente con l’attenzione della ricerca sugli impatti psicosomatici, poiché le esperienze sensoriali attivano ricordi emotivi e corporei che una raffigurazione letterale non coglierebbe.
I risultati della ricerca includeranno una serie di opere artistiche site-responsive, ambienti olfattivi edibili, scenari performativi, installazioni scultoree, video art performance, che funzionano come strumenti storiografici sensoriali.
In questo senso, manipolazione, controllo e sottomissione, a livello sociale e storico, sono per me strumenti. Spero che il mio lavoro possa avere un impatto sociale, e che l’arte contemporanea non si allontani ulteriormente dalla vita quotidiana, ma riesca ad avvicinarsi alle persone, pur mantenendo la propria complessità e stratificazione. Spero che possa essere seducente.
Lo riflessione dell’autrice sulla realtà
Pensi che lo sguardo dei bambini sia quello più veritiero nella rappresentazione della realtà?
No. Non penso affatto che esista una rappresentazione della realtà. Esistono modi diversi, per ciascuno di noi, di interpretare una stessa situazione. Dipende dai sentimenti, da come siamo stati educati ad affrontare certe esperienze. La realtà è una questione estremamente soggettiva, culturale, ed è sempre un’interpretazione. Non credo che esista una realtà unica.
Sapere leggere (le immagini): il non-detto di Ultracinema
Riguardo Ho paura di disegnare mia madre, hai sentito un legame materico con la bobina che ti ha portato a fidarti di lei?
No. Ho sentito piuttosto un forte legame e interesse verso il titolo, Мені страшно малювати маму. Una necessità di trasformare ciò che vedevo in qualcosa che mi interessava, di analizzare nel miglior modo possibile in quel momento. È stato un desiderio di comprensione e di creazione di un dialogo tra me e la regista che aveva lavorato su quel materiale in precedenza.
Cosa dice di te Ho paura di disegnare mia madre?
Direi tutto e niente. Questo lavoro è come un quaderno di appunti, che raccoglie diversi punti della mia ricerca, anche se nascosti allo sguardo dello spettatore. Dice molto della persona che ha creato quel film in quel preciso momento, dei miei interessi, del mio sguardo estetico, delle mie tematiche, il gioco, la salute mentale, il modo di narrare.
Allo stesso tempo non dice nulla di definitivo. Oggi strutturerei quel film in modo diverso, e andrebbe comunque bene. Svela forse il mio modo di sedurre, il mio approccio alle cose, che può sempre cambiare. In fondo, dice solo ciò che lo spettatore riesce a leggere o interpretare di me, guardando il film o anche solo il titolo.
Un ringraziamento speciale a Miriam Casadio, Giorgia Faietti, Mariachiara Iannizzotto e a tutto il team di Ultrapress, coordinato da Ylenia Politano, di Ultracinema Art Festival (qui il sito ufficiale).