Short Film italiani

‘Parru pi tia’, fatture d’amore per cuori infranti

Il cortometraggio del regista siciliano Giuseppe Carleo

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Mal d’amore? Basta una tazzina di caffè!

In casa della famiglia Bonanno, la giovane Annachiara (Miriam Dalmazio) è stata da poco lasciata dal fidanzato, Federico (Giulio Corso), il quale ha ora un ultimo appuntamento con lei per la restituzione dei regali di fidanzamento. Annachiara, però, è ancora innamorata di lui. Sua madre (Alessandra Pizzullo) le ricorda: è “l’unico buono che mi portasti”. La ragazza sarebbe disposta a tutto pur di riaverlo con sé. E così, l’arguta nonna (la cantante popolare Clara Salvo), ricorre a un metodo antico che potrebbe sortire esiti insperati: un rivoltante intruglio di sangue e caffè da servire all’inconsapevole ragazzo in una tazzina dagli effetti prodigiosi. Nonna, madre e figlia, però, non hanno fatto i conti col caso e i suoi beffardi incroci.

Un’immersione nelle credenze popolari e nei riti ancestrali della Sicilia di oggi

Immagine d’apertura: nuvole leggere nel cielo azzurro, un brusio lontano di sotto. Soltanto pochi secondi. Poi la telecamera va giù, come a voler incontrare quei suoni. L’accolgono i tetti di una città assolata dove il vocio di qualche istante prima va via via assumendo una forma più consistente. È la musicalità del dialetto siciliano, insieme agli scorci del paesaggio, a offrirci le coordinate giuste: siamo a Palermo, in un quartiere popolare. E quello che apre il racconto non è semplicemente un bel movimento di macchina, ma un vero e proprio atto d’immersione. Un gesto allegorico che dalla superficie della realtà vuol penetrare nel fitto del mistero, laddove credenze popolari e riti ancestrali sopravvivono all’avanzamento della tecnologia e della razionalità.

Una commedia sul recondito significato della magia popolare

Inizia così Parru pi tia (2018), ottimo cortometraggio diretto da Giuseppe Carleo e distribuito da Sayonara Film. Un’opera ispirata “a fatti realmente accaduti e che continuano ad accadere”, mediante la quale il regista siciliano si addentra nella cultura e nelle tradizioni della sua terra, prendendo le mosse dalla pratica ancora largamente diffusa del rito della “legatura”, una sorta di fattura con cui si lega a sé la persona amata.

Viene così evocata la dimensione dell’irrazionale come luogo dove cercare un riscontro a quelle domande che la società moderna – dominata dal sapere scientifico – non riesce a fornire. Un modo per dare (o illudersi di dare) un senso alla propria vita, ma anche una sorta di scorciatoia attraverso cui sviare dai problemi reali, spesso connessi a situazioni di difficile soluzione.

La risposta è una commedia densa di humor, in cui leggerezza e intelligenza vengono poste al servizio di un racconto che, sullo sfondo delle più classiche “pene d’amor perdute”, s’interroga sul recondito significato della magia popolare al giorno d’oggi, attingendone non soltanto gli aspetti strettamente rituali e scaramantici, ma anche quelli antropologici e sociali.

Un racconto divertente e ben confezionato

Ne risulta un racconto fluido, divertente e ben strutturato, in cui, nonostante la breve durata, ogni elemento risulta perfettamente omogeneo e funzionale. Dalla fotografia calda e luminosa di Martina Cocco (premiata all’Adriatic Film Festival 2018), alle musiche originali di Gianluca Porcu.

Si tratta di una cura del particolare che emerge sin dai titoli di testa – finemente ricamati a mano sulla tovaglia che campeggia sul tavolo di casa Bonanno – e che trova il proprio coronamento sia nella regia impeccabile e sicura di Carleo, che nella brillante performance di un cast attoriale ottimamente assortito, in cui figurano anche Claudio Collovà e il “cuntastorie” Salvo Piparo.

Non è un caso, dunque, che Parru pi tia abbia fatto incetta di riconoscimenti, il primo dei quali è stato il premio per il miglior corto alla terza edizione dell’I love GAI, concorso organizzato, nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia, da SIAE con Lightbox. Da qui una lunga serie di importanti riscontri che hanno consentito allo stesso Carleo di proseguire la propria indagine sul mondo della magia popolare con La bocca dell’anima (2024), lungometraggio ambientato nel 1949 e imperniato sulla storia di Giovanni (Maziar Firouzi), un uomo tornato in Sicilia dalla guerra che, grazie all’aiuto di una vecchia “majara” (Serena Barone), scopre di possedere il dono di guarire la gente.

È un’opera, quest’ultima, che, dopo Parru pi tia, conferma il talento del regista siciliano. Un autore senz’altro meritevole di un percorso artistico lungo, proficuo e all’insegna del successo.

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