“Mezzapesa porta la macchina da presa dove solitamente non si vuole guardare. E lo fa con un rigore che brucia.”
Paola Clemente si alzava quando il buio non aveva ancora deciso di andarsene e la giornata non era iniziata. Preparava il necessario, usciva di casa, saliva su un furgone insieme ad altri corpi stanchi come il suo. Andava a lavorare nei campi. Non c’era nulla di straordinario in questo, ed è forse la cosa più terribile. Un giorno Paola Clemente non è tornata. Il suo corpo si è fermato lì, tra la terra e il caldo, piegato da una fatica che non ha avuto testimoni abbastanza forti da fermarla in tempo. Il cortometraggio La giornata, di Pippo Mezzapesa, nasce da questa storia vera, da una morte che non è stata solo una fine ma un inizio: perché da lì è arrivata una legge contro il caporalato. Ma prima della legge c’è stata una vita. Ed è quella che il film decide di raccontare.
Fin dalle prime immagini capisci che non sei davanti a un semplice racconto cinematografico, ma davanti a un frammento di realtà che ha lasciato un’impronta nel Paese. Una bracciante morta di fatica nei campi, simbolo di uno sfruttamento antico. Mezzapesa non racconta l’evento, racconta l’attesa. L’attesa che una giornata finisca e che il corpo regga ancora un’ora. Racconta ciò che viene prima del crollo, perché è lì che si annida la verità più insopportabile: nella normalità. Non succede quasi nulla, eppure succede tutto. La sottomissione si manifesta nei silenzi. La fatica si deposita piano, come una polvere che non va più via.

Un furgone, i braccianti, i campi
Pippo Mezzapesa, che da anni è uno dei registi italiani più attenti al rapporto fra territorio e marginalità, costruisce il cortometraggio come una partitura asciutta, dove ogni immagine porta il peso di ciò che rappresenta. Mette in scena la giornata-tipo dei braccianti con un rigore quasi chirurgico. La sua macchina da presa entra all’alba nel furgone che li porta verso i campi, chiusi in quello spazio stretto che sembra contenere più destino che aria. E non ne esce più. Quel mezzo diventa un mondo intero, un condensato di sopravvivenza e sfruttamento. Non c’è retorica, non c’è compiacimento. È un cinema che osserva, registra, annota: c’è solo la crudezza della routine, la ripetizione dei gesti, la banalità del sopruso.
La fotografia scarna, fredda e crudele come una mattina d’inverno, scolpisce i volti senza pietà. Li illumina, li brucia, li rivela. In quei lineamenti segnati e gesti minimi – uno sguardo abbassato, una mano arrossata, il ritmo monotono del respiro che anticipa la fatica – il regista cerca la presenza viva di donne e uomini. I volti non chiedono compassione, e proprio per questo la ottengono. I corpi non vengono spettacolarizzati, e proprio per questo fanno male. È un cinema che smette di descrivere e comincia a incidere. Ogni dettaglio diventa necessario e ogni omissione pesa. E poi le inquadrature strette, la luce del mattino che non è mai davvero luminosa: tutto contribuisce a costruire una tensione costante, un senso di inevitabilità che precede ogni gesto. Nel suo film tutto è necessario: la durata breve, il montaggio che respira a singhiozzi, il tempo che si dilata giusto quanto basta per far comprendere il peso di un’ora vissuta in un campo.

La bellezza dentro gli angoli oscuri
Eppure, dentro questo rigore quasi documentario, Mezzapesa trova una sua forma di poesia: non una poesia decorativa, ma quella fragilità luminosa che nasce quando si osservano le persone da vicino, senza giudizio, lasciando che siano i loro silenzi a parlare. È una poesia che fuoriesce da quei dettagli che fanno vibrare le storie, la bellezza improvvisa che appare anche negli angoli più oscuri, una fenditura di luce che non salva nessuno ma rende tutto, per un momento, più vero. Il regista riesce a mostrare la dignità senza trasformarla in retorica, la sofferenza senza trasformarla in melodramma.
Il film, tratto dalla vicenda di Paola Clemente, cammina sul confine sottile tra denuncia e memoria. Non vuole trasformare la sua protagonista in un simbolo ma la restituisce al pubblico come una storia che ha generato una conseguenza concreta, una donna la cui morte non è stata vana. E proprio questo ne fa un’opera necessaria. Perché prima di essere un cortometraggio, La giornata è uno specchio: costringe chi guarda a prendere posizione, a fare i conti con una realtà che non può più essere ignorata. E quando arrivano i titoli di coda, non c’è catarsi. C’è consapevolezza. É un cinema che non addolcisce e non consola. Serve a ricordare. A tenere aperta una ferita finché non smette di essere ignorata.
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