Chi era Charles Manson prima di diventare Charles Manson? Ed è possibile interrogarsi su questa figura senza cadere nella fascinazione, senza assolvere, senza trasformare il trauma in spettacolo? E soprattutto: perché continuiamo a tornare su di lui, dentro il genere true crime, come se fosse un nodo irrisolto della coscienza collettiva?
Making Manson – Episodio 1, in arrivo su Sky Crime e NOW, si inserisce pienamente nel solco del true crime classico. Si tratta dell’episodio di apertura di La notte dei serial killer , un ciclo speciale che accompagna gli spettatori in un viaggio nel mondo dei criminali più temuti della storia. Non sovverte il genere, non lo decostruisce radicalmente, ma lo utilizza come dispositivo per accompagnare lo spettatore in un percorso graduale di conoscenza. L’inizio non è ambiguo né indulgente: Manson è già un criminale, già un nome marchiato. La distanza morale è netta. Il punto di vista è quello di chi osserva un mostro ormai fissato nell’immaginario.
È solo in un secondo momento che il racconto cambia forma. Non per scelta ideologica, ma per un processo quasi involontario, umano. John Michael Jones entra in contatto con Manson inizialmente per un motivo discutibile: ottenere una firma, trasformare il male in oggetto da collezione, da rivendere. Un gesto che il documentario non romanticizza affatto. Anzi, lo espone come sintomo di un sistema che mercifica anche l’orrore. È proprio quando Jones si rende conto della disonestà di questo scambio che avviene la svolta: non più lettere, ma cassette.
Making Manson La prigione come archetipo: quando il carcere diventa casa
“Charlie non conosceva altro che la prigionia, era il fulcro del suo essere, è un uomo che ha passato in carcere la maggior parte della vita”
Afferma Catherine Share (Gypsy), ex componente della Family. Madre e zio in prigione presto in prigione e un riformatorio cattolico come unica struttura educativa. L’infanzia di Manson diviene una sequenza di istituzioni punitive, mai riparative. Non c’è una figura che faccia da mediatore simbolico tra lui e il mondo. Non ha un mentore. Diventando mentore di se stesso.
In una lettura junghiana, qui emerge con forza l’assenza di un archetipo genitoriale integrato. Il carcere non è solo un luogo fisico, ma diventa un contenitore psichico. Ordine, regole, prevedibilità. Fuori, invece, il caos. Per questo, quando Manson dirà
“non cambierei un secondo della mia vita… nemmeno una virgola”
Non sta rivendicando il male, ma un’identità: quella unica che ha conosciuto. Il documentario non suggerisce mai che questa infanzia conduca inevitabilmente all’omicidio. Anzi, sottolinea implicitamente una verità scomoda: non tutti diventano Manson, ma ignorare il peso del trauma significa continuare a produrre soggetti irrisolti. E ancora oggi, la psicoterapia resta un privilegio e non un diritto.
1967: libertà, LSD e il carisma come maschera in Making Manson
Quando Manson esce dal carcere, è il 1967: Summer of Love. Psichedelia, rifiuto del materialismo, comunità alternative. In questo contesto, Manson non si impone come capo violento, ma come specchio. Un uomo capace di adattarsi, di dire a ciascuna persona ciò di cui ha bisogno.
George Stimson, suo amico, lo ricorda come un ex detenuto che cercava una strada, non un profeta dell’apocalisse. Ed è proprio questa normalità iniziale a rendere il suo percorso più inquietante. Il suo vero talento non era più la forza di un gangster, ma la lettura dell’altro. Sa riconoscere le fratture. Sceglie giovani donne in conflitto con i genitori, spesso cresciute in contesti “liberi” solo in apparenza. Dianne Lake racconta di essersi sentita finalmente vista, amata. Aveva bisogno di una figura paterna, e Manson la incarna.
“Dimenticate vostra madre e vostro padre, non appartenete a loro”
Diceva per convincerle. Una frase che promette emancipazione, ma che in realtà prepara il terreno ad una dipendenza tossica.
La manipolazione come rituale quotidiano
L’LSD non è solo una droga, ma un rito di passaggio. È Manson a distribuirlo. Mai il contrario. Non perde mai il controllo davanti alle ragazze, né lo consuma dinanzi a quest’ultime. La Family funziona come una micro-società gerarchica, travestita da comunità libertaria. Rifiuto del materialismo, vita di scarti, cibo dai cassonetti, vestiti usati. Non pagare affitti. Sopravvivere con il poco che si ha.
Tutto sembra una scelta ideologica, ma in realtà è una pedagogia della dipendenza. Le vittime non si percepiscono come tali perché credono di essere state salvate. È questo il cuore della manipolazione: non la violenza immediata, ma la costruzione lenta di un mondo alternativo in cui il leader diventa l’unica fonte di senso.
Making Manson e il rischio dell’empatia
“Ascoltare il racconto della sua infanzia e del trauma che quest’uomo ha subito, credo che l’abbia reso più umano ai miei occhi. E ho deciso che volevo conoscerlo meglio”
Ammette John Michael Jones. Ed è qui che Making Manson cammina sul filo. Non inventa un dispositivo rivoluzionario, ma utilizza quello classico del true crime: la confessione, il nastro, la voce. Eppure basta questo per spostare lo sguardo.
Lo spettatore si trova in una posizione scomoda: non simpatizza per l’assassino, ma per l’essere umano che precede il crimine. Come in 13, l’ascolto diventa un atto in grado di comprendere la psiche delle azioni. Capire non è giustificare, ma rifiutare la semplificazione.
Il documentario diventa allora una denuncia più ampia: contro gli orfanotrofi, le istituzioni punitive, una società che preferisce produrre mostri piuttosto che curare le ferite. Making Manson non chiede di perdonare. Chiede di guardare. E di riconoscere che il male non nasce nel vuoto, ma cresce dove nessuno ha voluto ascoltare prima.