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‘Buen Camino’: Zalone “Nel film c’è qualcosa di me e delle mie figlie”

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A cinque anni dal suo ultimo film, Checco Zalone torna sul grande schermo con Buen Camino, diretto nuovamente da Gennaro Nunziante rinnovando l’ormai consolidato sodalizio artistico. Qui il comico pugliese si muove in un territorio inedito: non più solo protagonista di gag e situazioni esagerate, ma interprete di un percorso interiore che esplora assenza, responsabilità e autenticità.

Buen Camino è al cinema dal 25 dicembre distribuito da Medusa Film

Una riflessione sul vuoto della ricchezza materiale

Il protagonista è un uomo ricchissimo, abituato a vivere senza limiti né ostacoli, immerso in un lusso che non richiede mai scelte né rinunce. Tutto è a portata di mano, tutto è garantito. Ma questa condizione, invece di produrre felicità, genera immobilità. È un personaggio che non desidera nulla perché non ha mai dovuto conquistare nulla: è un uomo che ha tutto, ma non ha esperienza. Il benessere materiale diventa così una forma di anestesia, una gabbia dorata che sostituisce l’affetto con il consumo e l’attenzione con il denaro.

A incrinare questo equilibrio fittizio è la figura della figlia Cristal (Letizia Arnò), voce narrante del film e vero baricentro emotivo del racconto. Cristal rifiuta il mondo del padre, prende le distanze dall’ostentazione, chiude i social e intraprende il Cammino di Santiago. La sua non è una fuga spettacolare, ma un gesto silenzioso, quasi ostinato: un tentativo di sottrarsi a un’esistenza costruita sull’apparenza e di cercare un contatto autentico con sé stessa e con gli altri. In questo ribaltamento generazionale, è la figlia a indicare una direzione, mentre l’adulto appare disorientato, incapace di leggere i bisogni di chi gli sta davanti.

Il rapporto padre e figlia al centro della commedia 

Il rapporto tra Checco e Cristal diventa così il luogo in cui Buen Camino riflette sul legame tra genitori e figli. Il film suggerisce con chiarezza che lo smarrimento delle nuove generazioni non nasce dal nulla, ma è spesso il riflesso di un’assenza adulta: di padri e madri che hanno confuso la protezione con il benessere economico, delegando l’educazione ai comfort e rinunciando alla fatica dell’ascolto. Zalone, senza perdere la sua ironia, mette in scena una paternità mancata, caratterizzata da goffaggine, negligenza e tentativi tardivi di recupero.

Il Cammino di Santiago come riscoperta di sé e dell’altro

Il Cammino di Santiago assume allora un valore simbolico preciso. Non è un semplice sfondo narrativo, ma un dispositivo che costringe i personaggi a rallentare, a misurarsi con la fatica, con l’essenzialità, con l’incontro. Camminare significa spogliarsi del superfluo, accettare il limite, condividere lo spazio e il tempo con gli altri. È in questo contesto che il film rivela la sua cifra riconoscibile, trasformando il viaggio in un percorso di riavvicinamento e responsabilità.

Proprio a tal proposito Medici durante la presentazione alla stampa ha dichiarato: “C’è qualcosa della mia vita vera. Io sono papà di due figlie e specialmente con la grande inizia a configurarsi quel tipo di rapporto conflittuale, spesso mi sembra di parlare una lingua diversa dalla sua. La ragazzina protagonista nel film rifiuta tutto ciò, ha chiuso i social, è ricchissima ma sa che nella vita c’è qualcosa di più quindi siamo partiti da qui”.

Una commedia che guarda oltre 

Buen Camino è una commedia che, come spesso accade con il cinema di Zalone, può dividere il pubblico. Al di là delle reazioni immediate, il film dimostra una chiara volontà di andare oltre la battuta facile, cercando un equilibrio più sottile tra comicità e racconto. Ridicolizza il politicamente corretto senza mai indulgere in compiacenze, e conferma come la leggerezza, se sapientemente dosata, possa trasformarsi in uno strumento critico di grande efficacia. E se il sorriso resta garantito, ciò che spicca in questo film è il modo in cui la commedia si apre a una dimensione più fragile, in cui l’ironia non cancella il disagio ma lo accompagna, rendendolo riconoscibile.

 

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