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‘Un cane miagola, un gatto abbaia’: intervista ad Alessandro Prato
Il regista Alessandro Prato riflette sull’autorealizzazione e sulla cecità morale della società.
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Un cane miagola, un gatto abbaia, cortometraggio scritto e diretto da Alessandro Prato, è stato presentato al Rome Independent Film Festival nella sezione ufficiale corti italiani. Interpretato da Giovanni Crozza Signoris, Marco Patania, Valeria Contadino e Alessandro Prato, con la partecipazione straordinaria di Loretta Goggi nel ruolo di Marta. Prodotto da Gianfranco Tortora per Sud sound studios e distribuito da Sayonara Film.
Un cane miagola, un gatto abbaia
Tra alienazione sociale, desiderio di autorealizzazione e un irraggiungibile sogno di diventare oculista, il protagonista Marco (Giovanni Crozza Signoris) attraversa una città cinica e indifferente, fino all’incontro con una figura inattesa: Marta, interpretata da una sorprendente Loretta Goggi. In questa intervista, il regista svela le origini del progetto, i riferimenti autobiografici e il significato dei simboli visivi che attraversano il film.
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Intervista al regista Alessandro Prato
Immagine dal set. Alessandro Prato e la troupe
Partiamo dalla fotografia. C’è un significato simbolico nella scelta della tavolozza cromatica? I colori sono funzionali a esprimere il pathos delle scene e il climax interiore di Marco?
Assolutamente sì. Abbiamo scelto una palette di colori freddi per raccontare il vortice distopico e deprimente in cui vive il protagonista, un ambiente appunto “freddo”. Fa eccezione la sequenza con la vecchietta Marta, interpretata da Loretta Goggi, dove abbiamo cercato una luce più calda. Per il resto abbiamo immaginato tutto con colori freddi.
Tengo a sottolineare che della color correction e del color grading si è occupato Walter Volpatto, che considero il miglior colorist al mondo: ha lavorato a Star Wars: Gli Ultimi Jedi, Interstellar, Green Book, Megalopolis, tra gli altri. Il suo contributo ha dato ancora più valore al cortometraggio.
La nostra intenzione è sempre stata quella di raccontare una metropoli distopica, e forse la palette è l’unico elemento non in contrasto con la narrazione. Da un corto così “al contrario” ci si potrebbe aspettare colori caldi e rassicuranti; invece, no: su questo ho voluto essere coerente con una narrazione più classica, sfruttando colori molto freddi.
Valeria contadino interpreta la cartomante. Colorist: Walter Volpatto
Parliamo del rapporto tra Marco e la sua nemesi, Marta: colei che rappresenta l’ostacolo tra il protagonista e il suo obiettivo, è anche l’unico personaggio che sembra comprendere il suo disagio, forse perché anche lei, come afferma, ha combattuto tante battaglie nella sua vita. Cosa ci puoi dire sulla costruzione di questo personaggio?
Solo adesso che ci penso, Marta potrebbe rappresentare in parte Mauro Bonanni, che è stato il montatore del mio primo film – oltre che di Non essere cattivo di Claudio Caligari, un’altra figura importante con cui ho lavorato. Mauro Bonanni è stato quasi un nonno per me, qui a Roma, e ora non c’è più.
Forse, inconsciamente, ho voluto inserire una figura così perché sono sempre stato molto legato a persone di una certa età, sagge, con tanta esperienza da cui potessi imparare.
Da quando vivo a Roma, sono alla ricerca di un mentore, di una guida in questo spietato mondo del cinema, in cui pochi ti danno retta. E questo l’ho traslato nella storia di Marco: un protagonista solo – perché non ha una famiglia né altri punti di riferimento – che per caso trova l’amore proprio nella persona che voleva eliminare. Qui entra in gioco sia la sorpresa sia una componente romantica, perché l’incontro tra Marco e Marta, alla fine, è una questione romantica.
All’inizio la scena della cartomante doveva essere ambientata in piazza e, su una colonna, tra i tanti graffiti, sarebbe comparsa la scritta “non sei solo”: un auspicio per il protagonista, che nel profondo coltiva la speranza che qualcuno, prima o poi, gli dia compagnia e amore. Poi, per motivi logistici, non ho potuto girare la scena in quel modo.
Marco e Marta, interpretata da Loretta Goggi
Il disegno attaccato al frigorifero richiama la condizione infantile in cui il protagonista è bloccato. La scena in cui gioca con il palloncino e si dimentica il cibo sui fornelli ne è un esempio. È giusta questa interpretazione?
Sì, assolutamente, ma non solo. Quel disegno rappresenta non solo il fatto che lui sia rimasto legato a quell’età, ma anche una nostalgia dell’infanzia. Penso sia una sensazione comune a tutti: ci mancano i tempi in cui eravamo giovani, incoscienti, spensierati.
Inoltre – e questo deriva anche dai miei studi di sceneggiatura – nella cinematografia recente si tende a parlare e a spiegare troppo. Io, invece, credo che alcune informazioni non vadano dette, ma mostrate. Qual è il modo migliore per presentare il personaggio, se non scrivere “Marco” sul frigorifero e mettere delle candeline sulla torta per suggerire che ha 27 anni?
Quindi i motivi sono principalmente due: una scelta di scrittura – mostrare invece di spiegare –e una forte componente nostalgica.
Giovanni Crozza Signoris nei panni del protagonista Marco
In più punti del cortometraggio il protagonista si gira di scatto verso la macchina da presa e dichiara di voler fare l’oculista. Lo ripete a noi o a sé stesso? Qual è la valenza di questo momento e perché con Marta non avviene?
Mi è sempre piaciuto lo sfondamento della quarta parete, il coinvolgimento diretto del pubblico. L’ho già utilizzato nel mio primo film, Agro dolce, dove lo sguardo in camera nei monologhi è fondamentale. Spero di poterlo inserire in tutti i miei lavori, come un tocco distintivo del mio stile.
Questa scelta è nata per caso durante le prove con Giovanni. Quando abbiamo provato alcune scene a casa – io lo riprendevo con l’iPhone – lui, a un certo punto, ha detto “Io voglio fare l’oculista” guardandomi in camera. Mi ha fatto ridere moltissimo e ho voluto tenerla.
Da lì abbiamo deciso che ogni volta che avrebbe pronunciato quella frase, avrebbe guardato in camera. Era una scelta che mi divertiva, che sapevo potesse far ridere, e che allo stesso tempo richiamava il mio amato sfondamento della quarta parete.
È nato tutto per caso, dall’improvvisazione, ma ho voluto assolutamente conservarlo.
Abbiamo mantenuto questo espediente ovunque, tranne nella scena con Marta. Lì ho scelto di non farlo guardare in camera perché siamo in un momento serio: è una sequenza drammatica, non più comica o delirante. In quel caso lui, per la prima volta, lo ripete a sé stesso, come per dire “Io lo voglio fare davvero, non sto scherzando”.
Il sogno irraggiungibile di Marco: fare l’oculista.
Durante una fallimentare diretta su Instagram, Marco legge la frase: “La visione è l’arte di vedere ciò che è invisibile agli altri”. L’inafferrabile aspirazione del protagonista di diventare un oculista rappresenta una metafora del restituire la vista a un mondo ormai cieco e cinico? Esiste un parallelo tra questo mestiere nel tuo universo distopico e la figura del regista nel mondo reale?
Certo. Assolutamente sì: è tutto un parallelo con la società.
In realtà, c’era anche una battuta, che poi ho tagliato, in cui l’amico Francesco chiedeva a Marco: “Perché vuoi fare l’oculista?”, e lui rispondeva: “Perché voglio che il mondo possa vederci meglio”. Mi sembrava troppo retorica, un po’ banale, quindi l’ho tolta, ma il concetto di fondo era proprio quello.
E poi sì, sicuramente c’è un rapporto con la mia vocazione di regista, con il nostro lavoro. Noi cerchiamo sempre di essere visti, ma quasi nessuno ci guarda, per farci notare dobbiamo fare di tutto. La genesi e la trasformazione di questo personaggio rappresentano un po’ il percorso di crescita di un regista.
Il motivo per cui il cinema in Italia si sta incrinando, soprattutto negli ultimi anni, è che molti registi per poter lavorare si piegano a ciò che i fruitori e questa società – che secondo me non è delle più profonde – chiedono: così si ritrovano a fare generi più asettici, leggeri, commerciali e magari sognavano il cinema d’autore.
Immagine dal set
Come è nata l’intuizione di coinvolgere Loretta Goggi nel progetto e di utilizzare una sua canzone nel finale? Com’è stato lavorare con una delle più grandi voci della musica italiana?
Loretta Goggi è arrivata come una manna dal cielo. Ho avuto la possibilità di lavorare con Ornella Morsilli, una bravissima casting director, che ringrazio sempre per l’ascolto e per il tempo che mi dedica .
Quando ho voluto coinvolgerla nel progetto, mi ha suggerito Loretta Goggi perché la riteneva perfetta per il ruolo. Io ero molto titubante: pensavo che non avrebbe mai accettato, perché è una figura di fama internazionale che ha sempre preso parte a progetti importanti.
Ornella, invece, ha insistito su questa scelta e ha parlato con i suoi agenti. Inaspettatamente, Loretta ha accettato con grande entusiasmo, nonostante non mi conoscesse, e io le sarò sempre grato.
L’inserimento della canzone è stata una scelta successiva. Quando si parla di Loretta Goggi si fa quasi sempre riferimento a Maledetta Primavera: è la prima canzone che viene in mente a tutti. Io, invece, conoscevo altri suoi brani, tra cui Pieno d’amore.
Nel momento in cui Loretta Goggi ha accettato di partecipare al mio corto mi sono davvero emozionato. Ascoltando Pieno d’amore, ho pensato che potesse essere la canzone perfetta per il finale, soprattutto per ciò che dice la prima strofa e per l’emotività del ritornello. Il corto l’ho montato io, quindi riuscivo a visualizzare le immagini a tempo di musica, e quella prima strofa – “Tutta scena, caro mio, ridi troppo, che cosa hai? Ti darò una mano io, se non ce la fai” – sembrava scritta apposta.
Loretta Goggi
Il corto descrive un disagio contemporaneo dei giovani: l’autorealizzazione. Hai trascinato questo problema sociale in un mondo distopico in cui è più normale un omicidio che un cappuccino di soia. Una rappresentazione che, però, si rivela amaramente reale. Come mai hai deciso di trattare questo tema e quanto è autobiografico il disagio che racconti?
L’idea di una metropoli distopica è nata da un viaggio a New York che ho fatto due anni fa. Ricordo di aver visto un senza tetto coricato in mezzo alla strada e le macchine che gli passavano accanto ignorandolo completamente, come se fosse invisibile. Il fatto che una persona praticamente morta a terra non destasse alcuna attenzione né interesse mi ha scosso molto.
Io vivo all’Esquilino, un quartiere di Roma in cui situazioni simili accadono ogni giorno, pieno di persone senza tetto e senza dignità, continuamente calpestate dalla società. Con alcuni di loro, a Piazza Vittorio, ho anche instaurato delle amicizie. Alla fine a queste persone ci si affeziona, inevitabilmente. Infatti, nel nuovo film che sto scrivendo, uno dei barboni che si vede all’inizio avrà un ruolo più importante.
La scelta tematica, quindi, deriva dal vedere quotidianamente tutto questo e dall’essere rattristato per l’indifferenza della società. Il lusso sfrenato esibito sui social, contrapposto alla povertà assoluta di chi vive per strada, non sembra preoccupare nessuno. Io, che mi ritengo una persona sensibile, soffro per questo e non posso fare a meno di raccontarlo.
Allo stesso modo, anche i femminicidi sono diventati qualcosa che sembra “normale” e a cui ormai la gente risponde con indifferenza. Siamo arrivati al punto in cui sembra più doloroso non avere l’ultimo modello di smartphone che vedere una persona ammazzata. Non ci importa più di nulla, e questa cosa mi destabilizza.
L’altro aspetto autobiografico è il paragone con la mia carriera. Io ho sempre saputo di voler fare il regista. Ho girato il mio primo lungometraggio a 23 anni e ha avuto una buona risonanza, è uscito su Prime Video e ha vinto premi in giro per il mondo.
Eppure, non sono ancora un regista che lavora stabilmente e sono sempre alla ricerca di opportunità. Ho lavorato su diversi set, in varie produzioni, ma ho svolto anche tanti lavori occasionali, come le consegne a domicilio, perché non riuscivo a trovare continuità nel cinema. Quindi, il protagonista sono io, finché si parla della ricerca di una dimensione nel mondo del lavoro. Però c’è una differenza tra me e Marco: lui si piega al volere della società diventando influencer, mentre io voglio proseguire dritto per la mia strada.
Il protagonista rappresenta una sorta di antieroe contemporaneo: una persona che sembra sbagliare sempre e non avere mai la meglio contro la vita e contro una società profondamente marcia. Il corto si chiude con un finale spiazzante, ma c’è un raggio di speranza?
Sono convinto che siamo tutti antieroi in questa vita, quindi il protagonista in un modo o nell’altro rappresenta tutti noi, seppur estremizzato e massacrato al limite. Il finale mostra speranza? Beh, alla fine è proprio quella l’ultima a morire.
Alessandro Prato, il regista