Nel corso della produzione venuta dopo L’uovo dell’angelo, MamoruOshii ci ha sempre abituati a opere sì profonde, ma comunque espresse con mezzi prettamente realistici e concreti, come Ghost in the Shelle Patlabor. È quindi piuttosto interessante che sia stato proprio lui a realizzare un film come questo, scardinato da tutti i principi della narrazione. Per questo motivo anche a 40 anni dalla sua pubblicazione inquadrarlo non è un’impresa semplice.
Il film torna nei cinema italiani in versione restaurata, distribuito da Lucky Red.
L’uovo dell’angelo: una narrazione atipica
La quasi interezza della prima metà del film è priva di qualsivoglia dialogo. Lo spettatore viene lasciato a se stesso nell’ambientazione inquieta della desolata città che fa da sfondo alle vicende. Nemmeno il comparto sonoro allevia la tensione, anzi, contribuisce alla sua intensificazione. La musica è prettamente atmosferica e spesso si fa da parte per lasciare spazio a lunghi momenti di silenzio in cui i rumori sono predominanti.
In tutti i 71 minuti di film i personaggi sono solo due: un ragazzo e una ragazza privi di nome, sconvolgendo così altri fondamenti della narrazione canonica. E, poeticamente, sono proprio loro a chiederselo a vicenda, non ricevendo però una risposta. Probabilmente, più che personaggi veri e propri sono concetti fatti a persona. Il ragazzo protegge un uovo che si porta sempre appresso, mentre il ragazzo è alla ricerca di un uccello visto in sogno. Le loro due missioni si intrecciano e, nelle pochissime interazioni tra i due, vengono anche affrontate più da vicino.
La ricerca di un senso secondo Mamoru Oshii
A spezzare la lunghissima assenza di dialogo è il ragazzo che, in riferimento all’uovo protetto dalla ragazza, afferma la necessità di dover tenere le cose per sé per non rischiare di perderle. Segue chiedendole un chiarimento che attanaglierà lo spettatore per tutta la durata del film: cosa c’è dentro quell’uovo custodito così gelosamente?
Ma forse, in fin dei conti, non è quello l’importante. Per quanto Oshii abbia concepitoL’uovo dell’angelo come opera a libera intepretazione da parte dello spettatore, c’è un tema che traspare chiaramente ed è la ricerca di un senso. Sia il ragazzo che la ragazza pongono nelle rispettive missioni la loro stessa raison d’être, tanto da dimenticare l’effettivo scopo di tutta la fatica impiegata.
Una frase del ragazzo nello specifico ne esprime perfettamente l’essenza: “Da quant’è che sei qui? Sono passati tanti giorni quante sono queste bottiglie? Io stesso mi sono dimenticato da dove io provenga. Forse non ho mai saputo dove mi stia dirigendo“.
Questo intervento non solo chiarisce una parte di trama, ma è fondamentale per comprendere tutta la poetica dietro il film stesso: va guardato senza chiedersi né da dove sia partito né dove sia diretto ed è proprio questo il suo senso. A metà tra sogno e realtà, tra calma e caos, tra conservazione e distruzione. Un insieme di opposti che vede la sua massima espressione nel climax finale.
Il comparto tecnico 40 anni dopo
Trattandosi di un film che mostra le cose piuttosto che dirle, per L’uovo dell’angelo si rivela necessario un comparto tecnico di una certa qualità e su questo fronte la produzione non delude affatto. Pur essendo passati ben 40 anni, lo stile di YoshitakaAmano non sfigura affatto e il restauro, supervisionato da Oshii stesso, riesce a farla risplendere come più merita. Lo stesso si può dire per il comparto sonoro di Yoshihiro Kanno, valorizzato ulteriormente dall’atmosfera creata da Dolby Audio.
Un’esperienza unica
L’uovo dell’angelo è un’esperienza che si distacca nettamente dalle altre e per questo apprezzarla appieno potrebbe essere difficile. Ciononostante, pochi film riescono a creare un’atmosfera simile pur avendo uno stile di narrazione così atipico. Anche non capendo la trama, che forse non richiede nemmeno di essere capita, il fascino, sia grafico che concettuale, che la circonda è innegabile. Si tratta quindi di un’opera che merita almeno una visione e ora più che mai è l’occasione giusta per approfittarne. Dopotutto, non capita tutti i giorni che un lavoro inizialmente passato in sordina torni nelle sale di tutto il mondo dopo ben 40 anni.
Fino al 10 dicembre sarà possibile godere di quest’esperienza nelle sale italiane.