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‘Ritratti di Cinema’ – Intervista al regista Civati e al fotografo Ghilardi

Maestri del cinema si raccontano senza filtri

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Martin Scorsese, Tim Burton, Jane Campion, Paul Schrader sono solo alcuni dei protagonisti immortalati da Riccardo Ghilardi per un progetto fotografico unico nel suo genere, all’interno della magnifica Mole Antonelliana di Torino. La mostra fotografica di Ghilardi (davvero imperdibile) è visitabile presso la Galleria d’Italia di Torino  dal 12 novembre 2025 al 1 marzo 2026.

Da questi scatti, dove la luce si fa poesia e gli artisti si svelano nella loro essenza più intima, è nato il documentario Ritratti di Cinema diretto da Paolo Civati.

Un film destinato a diventare un documento prezioso della Storia del Cinema, i cui registi simbolo della Settima Arte per una volta si trovano non dietro ma davanti alla macchina da presa e si mettono a nudo, raccontandosi in modo autentico e sincero.

Durante la 43ª edizione del Torino Film Festival, dove l’opera è stata presentata nella sezione Lo Zibaldone, abbiamo avuto modo di incontrare gli artefici di questa magia cinematografica, Paolo Civati e Riccardo Ghilardi, che ci hanno parlato del film, della loro esperienza sul set con questi giganti della cinematografia mondiale, svelandoci aneddoti, curiosità e retroscena.

Uno sguardo inedito sui grandi autori

Ho amato davvero il film. L’ho trovato intimo, poetico e molto umano. Si percepiscono la fragilità e la profondità di questi grandi artisti. Vorrei capire se secondo voi esiste un filo conduttore che accomuna i registi, pur nelle loro differenze stilistiche: forse la passione comune, la necessità creativa?

Riccardo Ghilardi: Ne parliamo dal punto di vista fotografico e poi del cinema, che sono due cose che vanno insieme. Sicuramente, a livello fotografico, l’amore e la passione per il cinema è quello che ha reso possibile la realizzazione degli scatti che ho portato a termine, perché generalmente un regista non è mai molto ben disposto a essere dall’altra parte della macchina da presa, non è abituato, in qualche modo non gli interessa.

Averli inseriti in un contesto cinematografico in cui loro non erano il regista di fronte al fotografo, ma erano, in qualche modo, gli autori e gli interpreti di un racconto cinematografico che era il Museo Nazionale del Cinema della Mole Antonelliana, secondo me, ha fatto cadere le sovrastrutture, li ha liberati in una performance che non è stata tanta l’interpretazione di un ruolo, quanto il vivere grazie al patrimonio del museo, le emozioni che loro hanno rispetto al cinema italiano e al cinema generale che il museo custodisce.

L’emozione di Scorsese davanti alle lettere di Méliès, il copione di Rosi per Salvatore Giuliano, Asghar Farhadi che gioca con le lanterne magiche originali del precinema, come un bambino gioca al parco giochi, quella è stata la magia della libertà e dell’umanità ritrovata in un progetto fotografico che credo poi sia quello che Paolo (Civati n.d.r) con grande sensibilità ha trasportato nel film.

Sono tutti autori, prima ancora che registi. Come dice Scorsese nel film, alcuni grandi registi del passato hanno lasciato la loro impronta anche su film scritti da altri. Lui no: la sua identità viene prima della cinefilia. Durante l’anno e mezzo del progetto riconoscevo sempre più i loro punti fermi, le loro ossessioni. Il film di Paolo ha cercato di creare una sorta di seduta comune , di trait d’union, che li avvicinasse, pur mantenendo le loro differenze.

La scelta delle tematiche nel film è molto precisa. Le domande non si sentono, ma emergono attraverso le risposte: vita, morte, cinema. Come avete costruito questa narrazione?

Paolo Civati: Ho scelto temi universali: vita, morte, identità, rapporto con se stessi. Mai domande tecniche, tipo “parlami del lavoro con gli attori”. Offrivo un contenitore e loro aprivano un discorso, anche di venti minuti. Con Jane Campion, per esempio, è uscito subito il tema della perdita, legato alla sua esperienza personale. Sono stati generosi: non solo parlavano di loro stessi, ma contribuivano a costruire la mia idea di cinema.

Normalmente i registi non parlano di altri registi, oppure se ne parlano è perché non ci sono più. Su Kubrick è una monografica, qui tutti vivi, tutti presenti. Damien Chazelle, ad esempio, è più giovane di me, ed era un ragazzino con un talento smisurato, un cervello smisurato, che si stupiva del fatto che comunque noi avessimo un’ammirazione verso di lui, anche quello è incredibile, non è scontato.

Un discorso, una riflessione che mi capita di fare spesso, anche con gli attori, le attrici, con le star che incontro ormai da anni, ce ne sono tanti che cercano in qualunque modo di riattaccarsi a una normalità, perché è un bisogno emotivo quello di essere ricondotti a un aspetto di vita non esasperato dal punto di vista degli altri, che costruiscono non tanto su di te come persona, ma sull’idea.

R. G.: Sono profondamente convinto che in questo film che ha fatto Paolo, sia proprio questa dimensione umana che li ha resi così partecipi e generosi nello spogliarsi e liberarsi, ho questa convinzione ed è quello che ho percepito anch’io.

Come è nata la vostra collaborazione?

R. G.: Ho iniziato questo progetto fotografico per il Museo del Cinema, che era nato per creare una mostra fotografica e un volume che raccontasse il patrimonio museale, quello che il pubblico di fatto non vede perché era rinchiuso in teche, casseforti e quant’altro. E gli spazi della Mole.

Avevo pensato a questo progetto creativo artistico in cui immaginavo gli attori e le attrici di oggi nei panni degli spiriti dei personaggi della Storia del Cinema e i registi e gli sceneggiatori, come se vivessero lo spazio della Mole come il loro studio e quindi autori che erano presi a sistemare cose del patrimonio. Era quella l’occasione per tirar fuori da queste casseforti, copioni, pellicole e mostrarle in una chiave diversa. 

Dopo i primi scatti ho capito che serviva anche un film, perché rischiare di perdere il racconto sarebbe stato folle. Sono così nati due progetti: uno più psicologico, affidato a Paolo, e un making of più tecnico.

Era un’opportunità talmente tanto bella, talmente tanto unica, talmente tanto forse ripetibile che non poteva limitarsi alle foto, dovevano essere le foto, il video, il documentario, il film e tutto quello che potevamo avere.

La tenerezza di Burton, l’emozione di Scorsese

Una domanda personale: Tim Burton è il motivo per cui ho scelto questo lavoro. So che è timido, poco incline a parlare. Eppure nel film si apre molto. Che impressione le ha fatto come uomo, al di là dell’artista che conosciamo tutti?

P. C.: Tim Burton è stato l’unico a chiamarmi subito “collega”, e questo mi ha colpito. Quando gli ho raccontato che per l’emozione mi era “andata via la faccia”, mi ha risposto che stava succedendo anche a lui. È stato fragile, dolce. Nel film c’è un momento in cui parla tra sé e sé: una tenerezza disarmante. Per ottenere quella naturalezza abbiamo fatto finta di non essere pronti, per non farlo sentire una star, ma una persona che entra e viene accolta.

Un altro regista che mi ha colpito molto è Scorsese, anche per ironia, umiltà e saggezza. Qual è stato il vostro impatto con lui?

R. G.: L’ho incontrato la prima volta dieci anni fa, in un festival: sei minuti per scattare un ritratto. Gli diedi una macchina fotografica analogica per un progetto, gli agenti volevano fermarmi, ma lui disse: “Fatemi fare questo scatto”. Io sono fermamente convinto del fatto che quando tu scatti una foto è vero che stai prendendo qualcosa, ma nello stesso istante stai restituendo dall’altra parte l’immagine di te.

Quel nostro primo incontro ha segnato la mia idea concreta di Martin Scorsese, al di là della sua struttura della grande cinematografia, del genio, della visione meravigliosa, e questa cosa me la sono riportata avanti negli anni. Da lì si è creato un rapporto di fiducia. Qui è stato come un nuovo primo incontro, perché in realtà io non incontravo Martin Scorsese per fare un ritratto a Martin Scorsese, ma gli chiedevo essere il protagonista di una scena di un film, e quindi l’approccio era completamente diverso.

Questa esperienza è stata la consacrazione di quella che era la mia idea, a livello umano, di questo grande maestro, che ama talmente tanto il cinema da permettersi di godersi ogni momento. Lui, di fronte al set che avevamo allestito, è entrato in una dimensione in cui Riccardo Ghilardi non c’era più; lui stava godendo dei disegni di Giovanni Pastrone, delle lettere di D’annunzio, del copione di Rosi. Il fotografo era un regista un po’ più distante dietro alla macchina da presa, e si è veramente divertito, e questa cosa qui, almeno a me, ha dato il sentimento della libertà di come loro vivono quello che sono.

P. C.: Io invece di Scorsese ti voglio dire una cosa. Mentre parlavo ero dissociato, a un certo punto mi è uscita l’anima, ho detto che cosa sto facendo, dove sono e perché questa persona è davanti a me. Lui focalizzato, io no.

R. G.: Pensa che mentre stavamo facendo le foto, abbiamo fatto uno scatto fuori alla Mole all’ingresso e io stavo sulla scala, lui aveva la rivista originale dell’uscita a stampa di Ucciso di Salvatore Giuliano, e io stavo sulla scala e mi sono reso conto che gli si era slacciata una scarpa. Ed è stato curioso perché io in quel momento ho visualizzato una persona di una certa età con una scarpa slacciata che sta salendo avanti e indietro delle scale e ho immaginato la catastrofe di lui che inciampa. Quindi sono sceso dalla scala senza chiamare i suoi che stavano nascosti, sono andato lì, lui mi ha guardato e mi ha detto, “Ma non devi farlo tu!” E io ho detto “No, ma lo farei per chiunque, no?” “Sì, certo”.

Greenway, Dafoe e le grandi verità di Schrader

C’è un altro episodio che ricorda con affetto?

R. G.: Peter Greenway mi disse: “Se mi trovi un punto da cui farmi una foto a figura intera con la Mole dietro, vengo”. Ho studiato la città finché non ho trovato un terrazzo perfetto.

Quando è venuto e lui pensava di dover fare una foto in Mole come avevano fatto gli altri, invece io gli comunicai con il museo che stavamo andando sul tetto del palazzo della RAI, siamo arrivati lì e c’era il set pronto e mi hanno detto “Ma quindi riuscirai a prendermi tutto intero e prendere dietro di me?” “Sì”. “E allora adesso sarò diretto da te.” E con questa frase mi ha regalato un mattone di ansia che ti porta indietro.

Mi viene in mente anche Willem Dafoe, nello scatto della mostra, quando abbiamo deciso che lui avrebbe riportato in vita Freder Fredersen di Metropolis e quindi doveva fare trucco, costume e quant’altro; ha mandato lui, una mail al suo agente a New York chiedendo di spostargli il volo di sei ore per non mettermi fretta.

Quindi ognuno la vive a proprio modo, però, poi, quello che a me ha innamorato del film di Paolo e della chiave che ha dato lui al film è proprio questa differenza tra di loro in nome di un amore comune, di una passione comune. Una differenza di percezione, di ossessione, di ricerca, di confronto, di contraddizione come dice Schrader.

C’è la definizione di Schrader sul vero eroe che io me la voglio portare al cuore, sulla schiena, che è la grande verità. Dice “Chi è l’eroe? L’eroe è quello che salva la donna? No, l’eroe è quello che salva la donna che ha scelto lui”. 

 

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