Rome International Documentary Festival

Il potere del racconto: ‘La Dernière Rive’

Un documentario che attraverso il racconto di un lutto restituisce dignità alla vita di Pateh Sabally.

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Nella sezione World Doc del Rome International Documentary Festival si raccontano storie provenienti da tutto il mondo in grado diventare una lente sulla contemporaneità. Documentari in grado di raccontare il presente attraverso nuove modalità e visioni, tra questi il documentaio del regista belga Jean-Francois Ravagnan, La Dernière Rive racconta una storia drammatica attraverso una viaggio dentro la perdita.

Il documentario La Dernière Rive di Jean-Francois Ravagnan tratta di un evento tragico. Attraverso i social la morte di un giovane uomo è divenuta virale, trasformando quel momento in un fenomeno di intrattenimento. Il video si diffonde nel 2017 quando Pateh Sabally, giovane immigrato gambiano, si lancia nel Canale Grande a Venezia. 

La Dernière Rive: contro la viralità del dolore

Inizia proprio così il documentario di Ravagnan, ponendo lo spettatore di fronte alla morte spettacolarizzata come a prendere consapevolezza della responsabilità universale quando si parla di dolore esibito.  

A fare da sottofondo a quella breve, ma che allo stesso tempo sembra interminabile, clip sono gli schernevoli e ostili commenti degli astanti, una prova agghiacciante della disumanizzazione di una tale tragedia.  

Il regista belga decide di partire da questa agghiacciante prova del voyeurismo contemporaneo per intraprendere un doloroso viaggio attraverso i racconti della vita infranta di Pateh. 

Un lutto che parla ancora

La Dernière Rive è un documentario amaro e straziante per i temi che tratta ma che non cade nel sentimentalismo. L’approccio con cui si decide di affrontare questo racconto rimane rigoroso e misurato lasciando interamente spazio alle testimonianze ma anche ai silenzi e alle pause. 

Partendo da un evento che tramite i media era stato ridotto a puro sensazionalismo Ravagnan restituisce umanità e voce alla storia di una persona reale.

La parola viene data ai genitori e ai familiari di Pateh che afflitti raccontano quelli che erano i sogni e le paure del ventiduenne, le speranze che lo avevano accompagnato e i rimpianti che ora li tormentano.

L’opera è composta da silenzi pesanti e sofferti, da racconti nostalgici che diventano un mezzo per la narrazione schietta e pungente del lutto. 

Sono proprio le parole dei familiari, il dolore ma anche la rassegnazione delle loro voci e la lucidità con cui ripercorrono la vita del figlio, a mostrare la crudeltà e l’ingiustizia che rimangono assenti invece a livello visivo. La macchina da presa si concentra sui paesaggi, sul riprendere le azioni ordinarie e i piccoli gesti come se volesse mostrare il modo in cui la sofferenza e il tormento divengano parte integrante della quotidianità. Un affanno con il quale ci si ritrova costretti a convivere e che Ravagnan pare voler dimostrare attraverso le iniziali riprese. Fuori fuoco e nebulose le immagini paiono quasi una metafora tangibile del martirio dei genitori di Pateh, costretti a convivere con un’assenza che non può più essere messa a fuoco. 

Quadri di vita sospesa

Mano a mano che i narratori sembrano prendere confidenza con il racconto il cineasta belga riesce a cogliere la stagnante immobilità della vita attraverso una costruzione delle inquadrature estremamente ricercata. Le luci naturali e delicate, le geometrie attente, i colori si amalgamano in una cura a tratti pittorica rendendo ogni scena simile ad un quadro. 

Ricrea così un’atmosfera intima, contemplativa e nostalgica che trasforma il dolore in un paesaggio che potrebbe essere emerso da una tela. Una resa visiva delicata e contemporaneamente potentissima. 

L’acqua come confine

Un elemento ricorrente nelle varie riprese è quello dell’acqua, una presenza costante e dal forte valore simbolico, soprattutto all’interno di questa storia. L’acqua è il luogo dove Pateh è morto, rappresenta dunque la fine, la muta violenza di una morte che avviene sotto gli occhi di centinaia di persone. L’acqua qui rappresenta però anche il viaggio, la speranza che aveva portato Pateh, come molti altri, ad attraversare mari e confini. L’elemento naturale, solitamente metafora della vita e della nascita, qui viene completamente ribaltato nel suo significato. L’acqua è ora memoria e ferita, rappresenta una dissoluzione, e si può leggere come metafora del lutto: qualcosa di impossibile da contenere e dominare. 

La Dernière Rive parla quindi di quella che è stata l’ultima riva per Pateh, la laguna veneziana che ha rappresentato per lui la fine del viaggio ma che può anche diventare il luogo da cui ricomincia la memoria. Si tratta della riva su cui il racconto di Ravagnan approda tentando di restituire dignità e voce ad una vita dimenticata. Una riva che diviene analogia di un limite oltre il quale non si può andare ma dal quale è ancora possibile, e necessario, raccontare.

La storia e la narrazione proposte da Ravagnan sembrano quindi essere più che una semplice documentazione un’opera sullo sguardo e sul suo potere, sulla responsabilità che ne deriva e sulla disumanizzazione che oggi sembra dilagare sempre di più.

 

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